Hanno il verme dacciaio cruciverba

Le prigioni degli innocenti: l’errore giudiziario da Jules Mary a Pierre Boulle

Michela Gardini

L’oggetto del nostro articolo consiste nella rappresentazione dell’errore giudiziario prevalentemente nella letteratura francese, in testi che si collocano tra la seconda metà dell’Ottocento (Jules Mary, Xavier de Montépin) e gli anni Cinquanta del Novecento (Léo Malet, Georges Simenon, Pierre Boulle). Il tema si inserisce nella più ampia prospettiva della relazione tra diritto e letteratura, alle cui connessioni sono stati dedicati anche recentemente svariati studi,[1] a testimoniare l’interesse che l’incontro tra discipline eterogenee riveste, inaugurando una prospettiva di riflessione e di ricerca quanto mai produttiva. Privilegiando casi giudiziari frutto d’immaginazione, non entreremo nel merito dell' Affaire Dreyfus, su cui esiste già una vastissima bibliografia.[2] Che cos’è un processo penale se non, esattamente come un’opera letteraria, una narrazione e una interpretazione di fatti che perdono totalmente la loro oggettività? Come argomenta Domenico Corradini H. Broussard, il processo al quale si assiste “sul palcoscenico dei tribunali” è un “play”, in cui “ciascun litigante è figlio del suo romanzo, di un romanzo in cui le azioni rappresentate non sono più le azioni storiche da lui compiute in un determinato locus e in un determinato punctum temporis” (2010:34). A dispetto della ricerca di una scientificità del diritto e del sistema penale, è l’arbitrarietà della ricostruzione dei fatti nonché la soggettività delle sentenze che spesso caratterizzano la cronaca giudiziaria. Ancora Domenico Corradini H. Broussard:

L’omicida, come il mutuante o il mutuatario, ciascuno dal proprio punto di vista, raccontano il fatto ai loro difensori. I difensori, ciascuno dal proprio punto di vista, raccontano il racconto dei loro assistiti. I testimoni, ciascuno dal proprio punto di vista, raccontano. Il pubblico ministero, dal proprio punto di vista, racconta l’omicidio. L’imputato, dal proprio punto di vista, racconta lo stesso omicidio, anche avvalendosi dello ius tacendi e dello ius mentendi. I documenti prodotti, ciascuno dal proprio punto di vista, raccontano. Le perizie depositate, ciascuna dal proprio punto di vista, raccontano, il giudice, dal proprio punto di vista, racconta nella sentenza che emana. […] Tutti raccontano. Raccontano non l’eventum, che è rimasto fuori dalla porta del procedimento giurisdizionale. Ma raccontano l’inventum, che dalla porta del procedimento giurisdizionale è entrato. Per raccontare, devono inventare. […] E raccontando, tutti rappresentano a loro modo la realtà di ciò che è stato. (2010:36).

Recenti studi di psicologia, d’altro canto, hanno dimostrato le influenze psicologiche che non di rado inducono i giudici a emettere sentenze non adeguate sulla base di vere e proprie distorsioni nella ricostruzione degli avvenimenti.[3] La macchina giudiziaria può così diventare una terribile fabbrica di errori giudiziari, in balia dei fattori più svariati, di ordine psicologico, politico e sociale, dall’istintività dell’opinione pubblica all’arbitrarietà della stampa, dalle false testimonianze alle perizie fantasiosamente interpretate.

Pierre Boulle, nel romanzo La faccia o Il procuratore di Bergerane, pubblicato nel 1953, rappresenta tutte le fasi che scandiscono la costruzione dell’errore giudiziario, tanto più tragico in quanto artatamente prodotto dalla mente spietata del procuratore Jean Berthier. Avendo assistito inerme all’incidente che porta la giovane Solange Grenier a scivolare nel fiume Rodano dove troverà la morte, il neonominato procuratore si cala totalmente nel ruolo del magistrato integerrimo, fermamente deciso a placare gli animi degli abitanti della cittadina di Bergerane, desiderosi a tutti i costi di avere un colpevole assicurato alla giustizia che possa dare loro l’illusione del trionfo della legalità. Guillaume Vauban, l’irascibile fidanzato della vittima, visto con lei poco prima della scomparsa della ragazza da testimoni colpevolisti a priori, appare come il capro espiatorio designato di un delitto inesistente. Non solo l’opinione pubblica lo condanna prima ancora che l’indagine venga svolta: “L’astio dell’opinione pubblica – si legge – si scagliava spontaneamente su quel figlio di ricchi ozioso, buono a nulla, traviato, che s’era attaccato a una ragazza di condizioni modeste” (Pierre Boulle 2007:138), ma, ancor più, la logica perversa dell’errore giudiziario porta la vittima stessa a confessare un omicidio mai commesso, irretito dalla strategia della difesa che convince Vauban, suo malgrado, ad ammettere la propria colpevolezza per poter ottenere le attenuanti. Molto spesso, come scrive Jacques Vergès, è come se l’errore giudiziario si alimentasse da solo, senza lasciare scampo alla vittima innocente ed ignara:

Come un verme nella frutta, l’errore si situa a monte dell’inchiesta, negli a priori dell’inquirente, ed è a giusto titolo che l’avvocato Devedjian ha potuto desumere come una legge generale dell’errore giudiziario: “L’inchiesta preliminare è generalmente la fonte di tutti gli errori giudiziari perché è il momento in cui l’emozione è al culmine e i pregiudizi sono fortissimi”. Basta che l’accusato faccia prova di un’attitudine percepita come equivoca o sospetta, ed ecco che la macchina s’imballa (2011:71. Traduzione nostra).

L’inautenticità che sta alla base della costruzione dell’errore giudiziario nel romanzo di Boulle raggiunge il parossismo nella simulazione del delitto che lo stesso Vauban è costretto ad interpretare sul luogo in cui venne ritrovata la bicicletta di Solange. E’ come se nel romanzo irrompesse la scena di una pièce teatrale o di un film, con tanto di atti, recitanti, prove. Vauban si trova a recitare la parte dell’assassino, remissivo, docile, ormai piegato alla macchina distorta della “giustizia”. Come in una mise en abyme, viene rappresentato un delitto inesistente sì, ma già raccontato nelle pagine precedenti, che si nutre della propria finzione e il cui copione è stato scritto dall’efficientissimo procuratore Berthier e dai suoi collaboratori:

Come un regista che fa ripetere all’infinito la stessa scena, Charvin fece rimettere nella posizione di partenza i due attori, il criminale e la vittima, quest’ultima impersonata ora dal brigadiere Langelin. Vi furono ancora dei tentativi falliti, ma alla fine, grazie all’impegno dimostrato dal brigadiere, riuscirono a ricostruire con sufficiente fedeltà il dramma che sin dal primo giorno aveva tanto colpito l’opinione pubblica, che era stato pian piano ricostruito in corso d’istruttoria e la cui effettività era stata confermata dalla confessione del reo (Pierre Boulle 2011: 160-61).

La mente senza scrupoli di Berthier, che vuole camuffare la propria viltà indossando la maschera del magistrato che assicura il colpevole alla giustizia, inventa spietatamente un reato non commesso giungendo a chiedere la pena capitale per l’accusato. La requisitoria si configura come una narrazione completamente slegata dalla veridicità dei fatti, ma tanto più convincente quanto più riesce ad incontrare le attese del pubblico colpevolista.

D’altra parte, la storia del diritto penale in Francia a partire dalla Rivoluzione Francese sino alla fine dell’Ottocento se, da un lato, testimonia del tentativo di fondare una scienza giuridica, dall’altro, tuttavia, mostra tutta la sua arbitrarietà e la sua dipendenza da fattori esterni al diritto stesso. In particolare, alla fine del XIX secolo, si assiste, contemporaneamente all’equazione proletariato=delinquenza, proprio alla fabbrica dell’errore giudiziario. A dispetto di quanto si leggeva sulla Gazette des Tribunaux nel 1851 :”Grazie alle garanzie che le nostre leggi penali hanno creato a vantaggio degli accusati, la condanna di un innocente è oggi divenuta quasi impossibile” (cit. da Joëlle Deluche 1994:336. Traduzione nostra), la realtà dei fatti smentisce tragicamente questo ottimismo, in un’epoca in cui l’aumento della criminalità aveva reso cruciale il problema della repressione e della sicurezza sociale, al punto da rendere solo teorica la presunzione di innocenza introdotta dalla Rivoluzione Francese, come ricorda Joëlle Deluche: “In realtà, a partire dal momento in cui un individuo viene sospettato, è una presunzione di colpevolezza che si impossessa degli animi” (1994:344. Traduzione nostra).

Nel suo saggio sul diritto penale francese nel corso del XIX secolo, “Du châtiment inflexible à la peine modulée: le droit pénal français au XIX e siècle” (2009), Bernard Schnapper denuncia quanto esso sia stato influenzato dalla storia politica del paese. Le conquiste della Rivoluzione Francese che, in campo giuridico, cercarono di porre rimedio all’arbitrarietà del diritto dell’Ancien Régime introducendo delle leggi scritte che si ispiravano alla Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789 e che vennero raccolte nel Codice penale del 25 settembre/6 ottobre 1791, conobbero talvolta, nel corso dei decenni, delle riformulazioni in senso involutivo. L’elezione dei giudici introdotta dalla Rivoluzione, che sarebbero poi stati controllati da un ministero pubblico, venne abolita da Napoleone Bonaparte che stabilì che i giudici fossero nominati direttamente dal capo dello Stato, addomesticando in tal modo la magistratura ed assumendone il potere. Di fatto Bonaparte elaborò un sistema penale di compromesso, che tenesse parzialmente conto del Codice penale della Rivoluzione ma che allo stesso tempo recuperasse alcune prerogative dell’Ancien Régime, nella direzione di un inasprimento della repressione e del rafforzamento del proprio potere. La svolta liberale del 1830 sino alla fine della II Repubblica cercò di riformare il sistema giuridico, ma il colpo di stato di Napoleone III pose fine al cammino di riforme introducendo, al contrario, un regime autoritario che si riflesse anche nel sistema penale. Bisognerà aspettare la caduta del Secondo Impero e l’avvento della III Repubblica perché venga rimessa mano al tentativo di riforma liberale della II Repubblica, promulgando, per esempio, una legge che permettesse agli accusati di essere assistiti da un avvocato. Tuttavia, la recrudescenza di eventi delittuosi, seminando il sospetto e la paura nella popolazione, spinse nella direzione di un rafforzamento della repressione, innescando in misura direttamente proporzionale una serie inaudita di errori giudiziari. Come documenta Frédéric Chauvaud nel suo saggio “Un «sujet de deuil» au XIXe siècle. La fabrique des erreurs judiciaires » (2004), tra gli anni 1860 e la fine degli anni 1890 la letteratura giuridica produce un numero importante di pubblicazioni proprio sul tema degli errori della giustizia.[4] L’infallibilità dei giudici non è che un mito, come scrive nella propria tesi di dottorato Gaetan Péan, avvocato alla corte d’appello di Parigi: “è una verità antica e troppo banale per insistervi, e forse anche per pensarvi molto, che gli uomini sono condannati all’errore, e i giudici, essendo uomini…” (cit. in Frédéric Chauvaud 2004:155. Traduzione nostra). Nel corso dell’Ottocento l’errore giudiziario diventa sempre meno un episodio isolato per diventare un fenomeno collettivo, che può minacciare qualsiasi individuo del corpo sociale. La fretta nelle indagini, l’eccessiva fiducia accordata ai testimoni non sempre attendibili, la troppa importanza data alle presunzioni di colpevolezza e agli indizi sono tra i fattori che predispongono all’errore, ai quali va ad aggiungersi la pressione esercitata dall’opinione pubblica che desidera ad ogni costo trovare un colpevole, anche in mancanza di certezze irrefutabili. Questo spiega anche il fatto che “il destino dell’accusato innocente dipende ben poco da lui stesso. Rassegnato o ribelle, egli indossa gli abiti del colpevole” (Frédéric Chauvaud 2004:160. Traduzione nostra). In questo contesto emozionale, la stampa che dà voce all’opinione pubblica alimentandola, designa il colpevole prima che la giustizia abbia fatto il suo corso. “Bisogna far condividere delle emozioni – scrive Chauvaud – far fremere i lettori nello stesso modo in cui fremeva la folla che assisteva ai supplizi, e soprattutto tenerli in sospeso. Per fare ciò, vengono pubblicate parti dell’istruttoria, vengono condotte delle inchieste parallele e degli innocenti sono d’un tratto presentati come dei colpevoli” (2004:167. Traduzione nostra).

Come emerge dai Souvenirs de la cour d’assises (1913) di André Gide, spesso le istituzioni appaiono meno preoccupate di far trionfare la giustizia che di dare prova di forza e di efficienza di fronte alla crescente criminalità. Auspicando che “delle riforme, poco a poco, potranno essere introdotte, sia riguardo al giudice e all’interrogatorio che riguardo ai giurati” (2009:13. Traduzione nostra), Gide non può che testimoniare la fragilità del sistema giudiziario, avendolo perlopiù conosciuto dall’interno grazie all’esperienza di giurato: ”sino a che punto la giustizia sia una cosa dubbia e precaria – scrive – è ciò che, durante dodici giorni, ho potuto sentire sino all’angoscia” (2009:12. Traduzione nostra). Dalle riflessioni di Gide emerge un’applicazione del diritto per molti versi lombrosiana: “L’opinione della giuria è che, dopo tutto, se non è del tutto sicuro che abbiano commesso questi furti, hanno dovuto commetterne altri; o che ne commetteranno; che, dunque, sono capaci di rubare. […] Colpevoli senza dubbio, ma forse non precisamente di questi crimini” (2009:17. Traduzione nostra). In quest’ottica di dubbio e di incertezza, Gide spiega il ricorso alle circostanze attenuanti come sintomo dell’esitazione della giuria che, in questo modo, opta per un verdetto di compromesso tra colpevolezza e innocenza. Tra gli errori giudiziari involontari e quelli volontari, si situano, dunque, quelli che nascono dal dubbio. Scrive Gide:

Quante volte (e nello stesso caso Dreyfus) queste «circostanze attenuanti» indicano soltanto l’immensa perplessità della giuria! […] Ciò significa: sì, il reato è molto grave, ma non siamo del tutto certi che sia costui ad averlo commesso. Eppure ci vuole una punizione: per ogni evenienza puniamo costui, poiché è lui che ci offrite come vittima; ma, nel dubbio, non puniamolo troppo (2009:62. Traduzione nostra).

Gide, infine, termina i suoi Souvenirs de la cour d’assises citando un conclamato errore giudiziario che portò in carcere per ventisette anni un innocente, scagionato soltanto dalla confessione, in punto di morte, del vero reo, attirando l’attenzione sul fatto che in casi come questo è la giustizia stessa a commettere un reato.

Come non ricordare il drammatico film di Nanni Loy, Detenuto in attesa di giudizio (1971), in cui Alberto Sordi interpreta la parte di un uomo arrestato e incarcerato per errore. Quando i funzionari della giustizia, nella figura dell’avvocato e del giudice ammettono l’errore e comunicano al detenuto l’imminente scarcerazione, ne fanno tuttavia ricadere la responsabilità sul detenuto stesso (“in parte anche per colpa sua signor Di Noi”), non mettendo quindi affatto in discussione l’istituzione e non riconoscendo l’errore giudiziario come un reato commesso dalla giustizia stessa. Nemmeno la scarcerazione ormai può ricompensare la vittima della distruzione fisica e psicologica subita. Il detenuto, che dal carcere è stato trasferito nel manicomio giudiziario, è ora un essere ammansito, senza più reazioni, un corpo docile e una mente inerme, schiacciati dall’attesa frustrata di dare un senso alla terribile esperienza vissuta.

Proprio l’impossibilità da parte dei personaggi di attribuire un senso all’esperienza vissuta permette di interpretare il film come una rivisitazione del Processo di Kafka (1925). Entrambe le vicende, sia di Josef K. che di Giuseppe Di Noi, infatti, arrestati senza aver commesso nulla e senza che vengano date loro spiegazioni, oltre a denunciare la mostruosità del labirinto giudiziario che trasforma il condannato in una pratica burocratica, pongono il problema esistenziale dell’uomo che equivale ad un eterno esilio rispetto alla legge, in un mondo sempre esposto all’errore e senza possibilità di giustizia. L’attesa e l’angoscia dell’imputato di conoscere il motivo dell’arresto tanto nel film di Nanni Loy quanto nel romanzo di Kafka presentano la questione cruciale della colpa che viene ad assumere una connotazione metafisica: il condannato, colpevole o innocente che sia rispetto ad un reato specifico, si comporta come se dovesse comunque espiare una colpa, partecipando all’erogazione della pena di cui è vittima. [5] Si tratta perlopiù di un retaggio giudaico-cristiano che induce il condannato ad una sorta di rassegnazione rispetto ad una macchia originaria, la medesima rassegnazione che spinge Dmitrij nei Fratelli Karamazov (1879) ad accettare la condanna per il parricidio, in realtà commesso da Smerdjakov, poiché si sente comunque colpevole per il fatto di aver desiderato la morte del padre. “Tutti i protagonisti fittizi o reali di un errore giudiziario hanno così, nella loro vita, una falla” scrive Joëlle Deluche, cosicché la loro innocenza legale non è sufficiente a metterli al riparo (1994:340. Traduzione nostra).

Il fatto che Josef K. non venga portato in prigione nonostante l’arresto, lo priva comunque della libertà, trasformando in una prigione tutti i luoghi che frequenta a cominciare dalla sede di lavoro, nei quali di fatto non è più padrone delle proprie azioni. L’umiliazione e il degrado di sé devono essere totali: Josef K. verrà giustiziato “come un cane”, mentre Giuseppe Di Noi è talmente piegato dal potere di cui è vittima, da comportarsi come il protagonista di un altro celebre testo di Kafka, La colonia penale (1914), dove “il condannato aveva talmente l’aspetto di un cane sottomesso, da dare l’impressione che lo si poteva lasciar correre liberamente per i pendii e che bastava chiamarlo poi con un fischio all’inizio dell’esecuzione, perché accorresse” (Kafka 1992:285). Il condannato subisce la sua pena come un destino ineluttabile, una “fatalità”, per utilizzare l’espressione di Léo Malet nella Premessa al suo romanzo L’ombra del grande muro (1942):

Queste pagine, traversate da spari di rivoltelle automatiche, da corse furiose di auto lanciate a tutta velocità, sputando fuoco e morte, costituiscono la storia di un innocente che la fatalità spinge nel fango sanguinoso del crimine, fino a sprofondarvi definitivamente; di un uomo sul quale pesa certo più della lapide della tomba, al punto di fargli credere che il sole non sia per lui, l’ombra terribile del grande muro” (Léo Malet 2004: 7-8).

Il condannato innocente subisce l’errore giudiziario come un eroe tragico che nulla può contro l’imperscrutabilità del Fato. La Pocharde, protagonista dei due romanzi di Jules Mary La Pocharde e Les Filles de la Pocharde (1897-1898), imprigionata ingiustamente, si sente come l’eroina di una tragedia antica, vittima impotente della fatalità: “Le fornaci da gesso! Tutta la sua disgrazia veniva da loro! Esse avevano svolto, nella sua vita, il ruolo della fatalità nelle tragedie antiche” (Jules Mary 2001:1054. Traduzione nostra).

Nella rappresentazione letteraria dell’errore giudiziario assistiamo, tuttavia, ad un’evoluzione del genere tra la fine dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento. Il romanzo popolare della fine dell’Ottocento, pur nella sua ridondanza e iperbolicità, di fronte ad un pubblico ormai di massa, si offre come lo specchio della società della sua epoca. Non stupisce, in quest’ottica, che molto spesso le vicende narrate riguardino il problema della criminalità e della repressione, una vera e propria urgenza nel contesto sociale della seconda metà dell’Ottocento. In particolare, si sviluppa quello che potremmo definire il genere dell’errore giudiziario, avente come protagonisti degli innocenti condannati ingiustamente. Maestro del genere è Jules Mary, nato nel 1851 e morto nel 1922, autore di decine di romanzi perlopiù apparsi come feuilletons sui giornali parigini e della provincia. La nostra attenzione si è rivolta a due romanzi principali con le loro rispettive continuazioni: Roger-la-Honte, seguito da La Revanche di Roger-la-Honte (1886-1887); La Pocharde, seguito da Les Filles de la Pocharde (1897-1898). Lo schema vi appare rigidamente il medesimo: il protagonista viene accusato e condannato ingiustamente, anche a fronte di una serie di indizi che effettivamente sembra deporre a sfavore del presunto colpevole, rendendo in tal modo la vicenda più movimentata ed accattivante. Ma né la deportazione di Roger Laroque, soprannominato la Honte (Vergogna) in Nuova Caledonia, né la lunga prigionia di Charlotte Lamarche soprannominata la Pocharde (Ubriacona) producono sulle vittime alcun cambiamento né alcuna lacerazione psichica (Fig. 1, Fig. 2). Essi restano fedeli a loro stessi e la loro identità non viene scalfita dalle prove patite durante la reclusione. Il loro unico desiderio è riuscire a dimostrare la propria innocenza ed ottenere pubblicamente la piena riabilitazione. Il loro è un percorso di dannazione e redenzione, che li rende figure cristiche, pronte al sacrificio in nome della verità. Non li anima nemmeno l’impulso della vendetta di Edmond Dantès, bensì, piuttosto, la ricerca di un’apoteosi finale che sancisca anche la riconciliazione sociale tra la vittima e il corpo della società da cui era stata iniquamente espulsa. In questo senso, del resto, il romanzo popolare assolve la propria funzione didattica e moralizzatrice.

Questi romanzi sono specchio dell’epoca anche nella misura in cui mostrano come la stampa e la medicina legale svolgano un ruolo nevralgico nella cronaca giudiziaria tardo-ottocentesca. Roger Laroque, accusato di omicidio e di furto, condannato ai lavori forzati, evaso dal penitenziario in Nuova Caledonia per poter riabbracciare la figlia Suzanne, prima ancora di venire riabilitato davanti alla legge grazie alla confessione di Luversan in punto di morte, gode già della riabilitazione da parte dell’opinione pubblica che sostiene la sua causa dalle testate dei giornali. Il romanzo di Jules Mary mostra il potere detenuto dalla stampa, ora colpevolista ora innocentista, capace di influenzare i processi giudiziari in corso. “Roger Laroque – si legge nel romanzo – si stupì che la stampa fosse già al corrente delle informazioni confidenziali che egli aveva dato ai giudici. Ma poco gli importava. Aveva l’opinione pubblica dalla sua parte, questa era la cosa principale” (Jules Mary 2001:449. Traduzione nostra). Ancora: “La stampa parigina intraprendeva già una campagna in favore della sua riabilitazione. […] Sì, la stampa prendeva in mano e vigorosamente il suo caso. Numerosi strilloni gridavano per le vie i fogli pubblici annunciando: Il crimine di Ville-d’Avray! Un errore giudiziario! Agonia dell’assassino nella casa della vittima! Dettagli completi! (Jules Mary 2001:448. Traduzione nostra).

Nella condanna di Charlotte Lamarche, invece, gioca un ruolo essenziale la perizia medico-legale. Il sospetto che Charlotte abbia avvelenato il figlioletto viene suffragato proprio dall’esame autoptico, che conferma la morte per avvelenamento, salvo scoprire che il veleno responsabile del decesso altro non è che l’esalazione dei fumi di gesso provenienti dalle fornaci ubicate vicino all’abitazione della donna. Come argomenta Frédéric Chauvaud nel saggio già citato, mentre nei processi le deposizioni dei testimoni e le confessioni stesse vengono sempre più contestate, la perizia medico-legale diventa protagonista nel processo penale proprio alla fine dell’Ottocento, sollevando talvolta il magistrato dalla responsabilità della sentenza. Altre volte, invece, i magistrati stessi denunciano la soggettività delle cosiddette prove scientifiche, come fu il caso nel 1880 da parte del procuratore generale Dauphin che non esitò a parlare di “opinioni personali scientifiche” (Frédéric Chauvaud 2004:166. Traduzione nostra) alla base degli errori giudiziari. La riabilitazione della Pocharde sarà possibile soltanto quando cadrà la prova medico-legale, allorché in punto di morte il dottor Marignan confesserà il proprio errore, taciuto per tanti anni per non compromettere il proprio prestigio.

L’apoteosi finale che sancisce la piena riabilitazione della vittima innocente si configura come il tratto distintivo della letteratura popolare, come emergeva già nel 1863 nel romanzo di Xavier de Montépin L’Homme aux figures de cire (Fig. 3). Anche in questo caso la ricerca della riabilitazione non ammette alcuna tentazione di accettare la grazia, per il fatto che essa non restituisce alla vittima la sua onorabilità. Vaubaron viene accusato ingiustamente dell’omicidio compiuto dallo spregiudicato Rodille che costruisce abilmente le prove contro Vaubaron che, “nato vittima”, come scrive Joëlle Deluche, “incarna la figura del manque” (Joëlle Deluche 1994:339), designato dal destino a subire l’ingiustizia celebrando non più solo l’equivalenza miseria=delinquenza ma piuttosto miseria=errore giudiziario. Ma, di fronte ad una giustizia insufficiente e fallace, Vaubaron sarà salvato dal suo stesso ingegno realizzando parossisticamente anche la propria ambizione di diventare artista: animando degli automi di cera con il sembiante delle vittime di Rodille, quest’ultimo crede di essere perseguitato dai fantasmi e confessa i propri delitti restituendo a Vaubaron pubblicamente la propria innocenza.

Dannazione e redenzione ancora una volta dunque, come cifra del romanzo popolare. Ma questo binomio che sinora è parso ineludibile è destinato a cadere nella letteratura contemporanea. Nei testi in cui vi è la rappresentazione dell’errore giudiziario, infatti, per la vittima non vi è più alcuna riabilitazione possibile, ma solo un’inarrestabile caduta.

Negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, quando i traumi della storia hanno ormai impresso la propria ombra sulla letteratura, il romanzo dell’errore giudiziario viene assorbito dal genere poliziesco che, lungi dal configurarsi come letteratura di evasione, si interroga sulle questioni sociali più cruciali quali, appunto, la giustizia nelle sue molteplici declinazioni, dal problema delle prove di colpevolezza alla pena di morte. Se la vittima tardo-ottocentesca in prigione manteneva intatta la sua forza, come se la privazione della libertà alimentasse in misura direttamente proporzionale il desiderio di riscatto e di ricongiungimento al corpo sociale, a sancire comunque il trionfo finale dell’istituzione giudiziaria, al contrario la vittima novecentesca in prigione subisce una trasformazione profonda e irreversibile. La reclusione si rivela un’esperienza di frammentazione dell’io, inteso sia come soggetto privato sia come soggetto sociale. Nel romanzo di Léo Malet L’ombra del grande muro (1942) il dottor Crawford, sulla base di incerte testimonianze e dell’assenza di un alibi, viene accusato dell’uccisione di Evelyn Stacy. La condanna per “omicidio involontario ed esercizio disonesto della medicina” a tre anni di prigione e a cinque di interdizione dalla professione a partire dalla fine della pena, del resto, diventa inevitabile dal momento che Crawford, per non coinvolgere la donna con cui aveva una relazione clandestina e con cui, di fatto, si trovava la sera del delitto, finisce per confessare il reato mai commesso, ormai intrappolato nell’ingranaggio perverso della giustizia: “Ma al processo avevo temuto che un supplemento d’indagine facesse scoprire la verità e, per evitare tale temibile eventualità, avevo ammesso il crimine di cui ero innocente” (Léo Malet 2004:36) afferma il dottor Crawford, come se, benché estraneo all’omicidio, dovesse espiare comunque un’infrazione, una macchia, la trasgressione legata alla sua segreta vita sentimentale. Rinchiuso nella prigione di Ossining, nello Stato di New York, Crawford cambia pelle e il giorno della sua liberazione la prigione non apre le proprie porte all’uomo che era tre anni prima, bensì ad un uomo ormai anestetizzato, marchiato a fuoco dal numero di matricola 9204, che sta per fare il suo ingresso realmente nel mondo del crimine:

In seguito vagai come un’anima in pena. Era strano essere libero… era comunque un po’ sgradevole.

Pensandoci bene, non era il fatto di essere libero ad essere sgradevole… era il sentirsi solo, vedere gli amici di un tempo voltarti le spalle, sentirsi segnato e smarrito al centro di una sorda ostilità, un’ostilità che sembrava manifestarsi persino in coloro che ignoravano la tua condizione, come se il numero di matricola restasse anche sul completo nuovo (Léo Malet 2004:40).

Entrato a far parte di una banda di criminali prestando dapprima il proprio servizio come medico, Crawford arriva ad uccidere senza provare alcuna emozione né rimorso:

«E’ morto», dissi rialzandomi e asciugandomi meccanicamente le mani sporche di sangue sulla coscia.

Avevo appena ucciso un uomo con una facilità sconcertante. I tre anni di Ossining dovevano in buona parte avere a che fare con tale calma (Léo Malet 2004:65).

Se le vittime innocenti dei romanzi popolari della seconda metà dell’Ottocento, come abbiamo analizzato, avevano come unico desiderio quello di veder riconosciuta la propria innocenza, il romanzo di Malet termina con il ritorno di Crawford in carcere dopo che questi ha compiuto la propria vendetta, uccidendo il marito dell’amante di allora, che altri non era che il vero assassino di Evelyn Stacy. La prigione, dunque, foucaultianamente come produttrice di delinquenza, il “grande muro” che getta un’ombra indelebile: “Lo so. – afferma Crawford – Trascinavo con me l’ombra del grande muro e sulla mia persona l’impronta della griglia dalle sbarre d’acciaio, cruciverba nel quale non si scrive mai l’aggettivo libero” (Léo Malet 2004:79).

Anche Simenon non manca di denunciare le distorsioni della giustizia, come avviene nei due romanzi Corte d’assise (1941) e Maigret e una vita in gioco (1957), per i cui protagonisti, vittime di un errore giudiziario, non vi è redenzione possibile. Petit Louis, nel primo romanzo, è il capro espiatorio perfetto per salvare i veri colpevoli, protetti da una giustizia connivente con il crimine. Come nel romanzo di Pierre Boulle, l’errore giudiziario viene fabbricato ad arte, condannando Petit Louis, che ascolta il verdetto completamente inerme, a vent’anni di lavori forzati, vent’anni di divieto di residenza e alla perdita dei diritti civili. Dopo la sentenza, i ruoli tra l’istituzione e il condannato paiono beffardamente ribaltati:

Erano tutti colpevoli, magistrati, giurati, giornalisti, belle spettatrici e spettatori, tutti, compresi gli avvocati, che all’improvviso trovarono qualcosa di urgente da fare, sentirono il bisogno di muoversi, di precipitarsi verso qualcuno o verso una porta, perché non ce n’era uno che non avesse un motivo per non vergognarsi (Georges Simenon 2010:180).

Dal comportamento che mostra in carcere Joseph Heurtin, protagonista del secondo romanzo, il commissario Maigret deduce che “è pazzo o è innocente” (Georges Simenon 1957:37,38), decidendo di voler dimostrare la sua estraneità al duplice omicidio per il quale è stato condannato. Ma la prigione ha ormai trasformato Heurtin, come tutti gli altri condannati a morte, in un numero: “Venivano a prendere il numero 9 – si legge - per condurlo al patibolo. L’indomani Heurtin, divenuto il numero 11, singhiozzava. Ma non parlò. Steso sul lettuccio, il viso volto verso il muro, si limitava a battere i denti” (Georges Simenon 1957:37). L’unico orizzonte che la prigione schiude per Heurtin è quello della morte, per questo quando verrà liberato a sorpresa affinché conduca al vero assassino, il giovane, nascosto nella casa paterna, viene ritrovato impiccato.

Il suicidio è la forma estrema che assume la distruzione del soggetto recluso a fronte dell’impossibilità della riabilitazione, come avviene anche in un altro romanzo dedicato all’errore giudiziario: Il caso Maurizius di Jakob Wassermann, pubblicato nel 1928, ispirato ad un fatto di cronaca e da cui il regista Julien Duvivier trasse nel 1954 il film L’Affaire Maurizius (Fig. 4) Anche in questo romanzo ritroviamo la dicotomia tra grazia e riabilitazione: dopo 19 anni Maurizius esce di prigione essendo stato graziato, ma ne prova una profonda insoddisfazione, poiché la libertà, così ottenuta, non può restituirgli l’innocenza. Il carcere ha ormai irreversibilmente ucciso in lui la vita: “Ma no, non esiste conforto. Anche il sesso è stato ucciso, in lui. Ora è evidente: lui non fa più parte del mondo. Anche il sesso è morto” (Jakob Wassermann 2001:490). Mentre i personaggi dei romanzi popolari venivano reintegrati nel tessuto sociale, per Maurizius l’unica verità è la sua totale esclusione: “lui non fa più parte del mondo”. Nella vicenda Maurizius, il carcere si rivela il luogo di un pervasivo annientamento. Emblematico, in tal senso, il dialogo tra il carcerato e il secondino: alla domanda se lo crede innocente o colpevole, la guardia risponde che all’indomani avrebbe avuto la risposta, facendosi poi trovare impiccato, perché se si credesse nell’innocenza di un detenuto “e poi si deve stare a vedere come si rodono il fegato, dico io, se si sapesse per certo, allora… […] Be’, allora, disse lui, a rigore non si potrebbe più continuare a vivere” (Jakob Wassermann 2001:435). Nei romanzi popolari ottocenteschi analizzati è evidente come la trama avventurosa porti alla creazione di personaggi nel complesso stereotipati, senza spessore psicologico, proprio perché funzionali alla dimostrazione della tesi contenuta nel binomio dannazione/redenzione. Nei romanzi novecenteschi che abbiamo evocato, invece, la presentazione dei personaggi è innanzitutto introspettiva. Vengono descritte le reazioni e le sensazioni che la reclusione, subita ingiustamente, suscita in loro. Maurizius, condannato all’ergastolo, attraversa tutte le fasi della discesa all’inferno: la perdita del sonno, le ruminazioni mentali, “la tortura del «se avessi»” (Jakob Wassermann 2001:412), rimorsi, rimpianti e il senno di poi. Ma la prova più difficile si rivela “l’imprigionamento della volontà […]. Si continua a volere sempre, sì, la volontà non è morta, ma non c’è più nulla da volere e questo finisce per fare impazzire” (Jakob Wassermann 2001:413). Laddove la rappresentazione romantica della reclusione prevedeva come compensazione alla perdita della libertà la creazione letteraria e artistica, rifugio privilegiato del prigioniero affetto da claustrofilia, significativamente la caduta di Maurizius trasforma anche l’atto della lettura e della scrittura in un’operazione meccanica, nonché in una recita apatica. Schiacciato dal peso di questa messa in scena, Maurizius decide di non scrivere più: “Mi alzai e buttai la penna nel secchio delle immondizie, dicendo: basta, basta! E mi sentii così male che vomitai” (Jakob Wassermann 2001:423). La discontinuità con la tradizione romantica non potrebbe essere più completa, sino ad approdare al genere del legal thriller che trova in John Grisham l’interprete attualmente maggiormente riconosciuto. Se nel romanzo Io confesso (2010) la riabilitazione post mortem può servire a tutelare la memoria di Donté Brumm, vittima innocente condannata all’iniezione letale e, ancor più, a stemperare la sofferenza della famiglia, di fatto essa nulla concede al condannato.

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[1] Cfr. fra gli altri : Jacques Vergès (2011), Justice et littérature, Puf, Paris ; Vincenzo Ruggiero (2005),Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, il Saggiatore, Milano; Ellen Constans, Jean-Claude Vareille (1994), Crime et Châtiment dans le roman populaire de langue française du XIXe siècle, Pulim, Limoges ; gli atti dei convegni organizzati dalla Italian Society for Law and Literature, in particolare: Diritto e letteratura. Prospettive di ricerca (2010), Aracne, Roma; Diritto e narrazioni. Temi di diritto, letteratura e altre arti (2011), LED, Milano; Arte e limite. La misura del diritto (2012) Aracne, Roma.

[2] Tra i testi più recenti dedicati all’Affaire Dreyfus e alla sua rivisitazione da parte di scrittori francesi ci limitiamo a segnalare il saggio di Alberto Beretta Anguissola (2012), L’errore giudiziario in Zola e Proust, editoriale scientifica, Napoli.

[3] Si vedano a tal riguardo i seguenti saggi: Birte Englich, “Playing Dice with Criminal Sentences: the influence of Irrelevant Anchor on Expert’s Judicial Decision Making”, in Personality and Social Psychology Bulletin, vol. 32, 2006, pp. 188-200; Shai Danziger, Jonathan Levav, Liora Avnaim-Pesso, “Extraneous factors in judicial decisions”, in Proceedings of the National Academy of Sciences, vol. 108, 2011, 6889-6892.

[4] Citiamo, fra gli altri: Jean Bertin, “Des erreurs judiciaires en matière criminelle”, Le Droit, 27-28 février 1860; Les Erreurs judiciaires, discours de rentrée à l’audience solennelle de la cour d’appel d’Angers, 16 octobre 1894, Angers, G. Paré, 1894, VII ; Marie-Paul Bernard, « De la réparation des erreurs judiciaires », Revue critique de législation et de jurisprudence, t. XXXVII, 20e année, 1870 ; « De l’indemnité due aux condamnés innocents », La Gazette des tribunaux, 7 juin 1890 ; Louis Jardin, Les Erreurs judiciaires et leur réparation, thèse de droit, Caen, 1897 ; Paul Roche, De la Réparation des erreurs judiciaires, thèse de droit, Lyon, 1899.

[5] Su questo aspetto cfr. Vincenzo Ruggiero, op. cit., p. 191.