Il santo della troppa grazia cruciverba

*Santi Babila, Urbano, Prilidano ed Epolono - Martiri (24 gennaio)
† 250 d.C.

Sino al concilio Vaticano II il 24 gennaio a Milano si commemoravano San Babila e i tre fanciulli. Oggi è al 23, per ricordare il giorno dopo San Francesco di Sales. La memoria «milanese» di San Babila è antichissima: la si trova già in codici nel IX secolo. Segno sia del legame tra la nostra Chiesa e le antiche chiese orientali sia della fama di San Babila, vescovo di Antiochia, sulla cui morte esistono due narrazioni. Secondo Eusebio di Cesarea, sarebbe morto di stenti in prigione al tempo dell’imperatore Decio (249-251), che scatenò una persecuzione definita dagli storici «scientifica» per la sua organizzazione capillare e severa, che spaventò molti anche perché giunse improvvisa. Secondo Giovanni Crisostomo, invece, egli sarebbe stato decapitato per essersi opposto all’imperatore, che voleva partecipare alla celebrazione eucaristica con le mani grondanti sangue innocente. Per questo, forse, la tradizione ricorda con lui il martirio di tre ragazzi: Barbado, di 12 anni d’età; Apollonio, di 9 anni, e Urbano di 7. Babila morì per difendere coloro che il Signore predilige: i deboli, i piccoli. Anche Ambrogio diceva: «Ogni giorno sei chiamato ad essere testimone di Cristo. Lo testimoni confermando con i fatti l’adesione agli insegnamenti del Signore Gesù».
Martirologio Romano: Ad Antiochia di Siria, ora in Turchia, passione di san Bábila, vescovo, che, durante la persecuzione dell’imperatore Decio, dopo aver tante volte dato gloria a Dio tra sofferenze e tormenti, ottenne di morire gloriosamente legato a ceppi di ferro, con i quali dispose che il suo corpo fosse anche sepolto. Insieme a lui si tramanda che subirono la passione anche i tre fanciulli, Urbano, Prilidano ed Epolono, che egli aveva istruito nella fede cristiana.
Vescovo di Antiochia negli anni Quaranta del III secolo, San Babila morì martire «in prigione ad Antiochia dopo la sua confessione», durante la persecuzione dell’imperatore Decio verso l’anno 250. Ricaviamo questi dati fondamentali dalla testimonianza, ormai successiva di più di mezzo secolo, dello storico Eusebio di Cesarea (Hist. eccl. VI, 29, 4; 39, 4; Chronicon, Decius I).
Inoltre gli antichi Martirologi - il Martirologio siriaco del 412 ed il Martirologio geronimiano, anch’esso del V secolo - il 24 gennaio uniscono alla memoria di San Babila quella di tre fanciulli martiri; e pure san Giovanni Crisostomo, all’inizio dell’omelia Per i Santi Gioventino e Massimino pronunciata nel loro anniversario il 29 gennaio, richiamando all’uditorio il vescovo san Babila festeggiato pochi giorni innanzi, non dimentica i tre fanciulli martirizzati con lui.
Se in aggiunta a queste indicazioni, preziose ma molto scarne, vogliamo raccogliere ulteriori informazioni, l’indagine non si rivela facile: conduce anzi più a questioni incerte che non a soluzioni sicure.
Per i tre fanciulli possiamo raccogliere soltanto i loro nomi e l’età di ciascuno, così come ci sono stati conservati dalla tradizione siriaca nel martirologio di Rabban Sliba del XIII secolo; sono Barbado (12
anni), Apollonio (9 anni) e Urbano (7 anni); i soli nomi, con una variante e con ordine differente, si trovano già registrati nell’Historia Francorum (I, 30) di Gregorio di Tours (+ 594), ove figurano come Urbano, Polidano ed Epolono.
Per San Babila la nostra fonte principale è san Giovanni Crisostomo: nativo di Antiochia e collaboratore del vescovo Melezio (+ 381) e soprattutto del suo successore Flaviano (+ 404) sino al 398 quando divenne vescovo di Costantinopoli, il Crisostomo poté raccogliere le voci che circolavano nella comunità antiochena riguardo al santo vescovo. Ci racconta così, nel lungo discorso Su san Babila contro Giuliano e i gentili scritto verosimilmente negli ultimi mesi del 378 o nei primi dell’anno seguente, un episodio rivelatore della fortezza e della franchezza di parola di san Babila. Un imperatore cristiano dei tempi antichi, ricorda il Crisostomo senza impegnarsi a ricercarne o a rivelarne il nome, aveva ricevuto come ostaggio da un re barbaro il figlio, quale segno della pace raggiunta fra i due e con la promessa che l’avrebbe trattato con affetto come un proprio figlio; invece lo uccise e, reo di un sì grave delitto, osò presentarsi all’assemblea per partecipare alla divina liturgia. Ma il vescovo di quel luogo, san Babila appunto, gli vietò l’accesso al tempio sacro e lo scacciò; venne però arrestato e quindi condannato a morte. Il martire, prima di essere condotto al supplizio, chiese di essere sepolto insieme con le catene che avevano accompagnato la sua prigionia. Nulla di nuovo aggiunge il Crisostomo in un’omelia, certamente successiva all’anno 381, Sullo ieromartire Babila, e in un fugace cenno, nel 394, in un’omelia sulla lettera agli Efesini (IX, 2), ove il gesto coraggioso di Babila è paragonato alla fortezza con cui san Giovanni Battista aveva rimproverato il re Erode.
Ma, dicevamo, il racconto del Crisostomo pone non pochi interrogativi. Anzitutto egli riconosce sì l’importanza della prigionia di san Babila, quando ricorda il particolare delle catene da seppellire con il martire, ma, mentre Eusebio sembra ritenere Babila morto in carcere a séguito della sua confessione, Giovanni Crisostomo ne descrive specificatamente la condanna a morte e fa capire che venne poi ucciso, si direbbe per decapitazione. Inoltre, e soprattutto: chi sarebbe l’imperatore innominato? Forse Filippo l’Arabo (244-249) che, secondo Eusebio (Hist. eccl., VI, 34), si era presentato una volta ad una chiesa per partecipare alla veglia pasquale e vi era stato ammesso solo dopo aver umilmente accettato la penitenza impostagli dal vescovo? Ma l’adesione al Cristianesimo da parte di Filippo è lungi dall’essere confermata e lo stesso Eusebio mostra la propria incertezza sull’intero aneddoto introducendo la narrazione con un inequivocabile «si racconta» e lasciando non identificato il vescovo che impone a Filippo la penitenza.
Il bollandista Paul Peteers ha creduto di trovare una soluzione a queste incertezze nella testimonianza del vescovo filoariano di Antiochia, Leonzio (+ 357/8), giunta a noi nel Chronicon paschale, della prima metà del VII secolo. Secondo questa fonte l’imperatore presentatosi al vescovo Babila sarebbe appunto Filippo l’Arabo che, quand’era prefetto del pretorio, aveva ucciso il figlio non di un re barbaro, ma del suo predecessore Gordiano, che glielo aveva affidato; morto Gordiano e divenuto imperatore Filippo grazie all’omicidio del figlio dello stesso Gordiano, durante un soggiorno ad Antiochia Babila avrebbe impedito a Filippo e alla moglie, che erano cristiani, di entrare in chiesa; il Chronicon non descrive la reazione dell’imperatore, ma aggiunge che Decio, succedendo poi a Filippo, uccise Babila non solo perché cristiano e vescovo, ma anche per vendicame l’affronto fatto alla maestà imperiale nella persona del suo predecessore. Nonostante il parere di padre Peeters, anche questa narrazione lascia non poche perplessità, non essendo altrimenti attestata l’uccisione del figlio di Gordiano, se mai ne ebbe uno, e rimanendo assai dubbia, come già accennato, una così esplicita adesione di Filippo al Cristianesimo. L’episodio della franchezza di parola di san Babila davanti all’imperatore, ripreso e ulteriormente elaborato nelle fonti e nelle leggende successive, non sembra quindi pienamente decifrabile. Né altro ci è stato tramandato con garanzia di storicità o di verosimiglianza sulla vita e sul martirio del santo vescovo di Antiochia.
È invece ben documentata la sorte delle sue reliquie: il testimone principale al riguardo è ancora san Giovanni Crisostomo, nei due scritti principali riguardanti san Babila. Le sue spoglie, sepolte originariamente nel cimitero di Antiochia che si trovava fuori città, extra portam Daphniticam, a metà del IV secolo vennero trasferite dal Cesare Gallo (35 1-354) proprio nel vicino sobborgo di Dafne. Si trattò di un avvenimento assai singolare, perché costituisce il primo caso di traslazione di reliquie di cui ci sia giunta sicura testimonianza. Con questa decisione Gallo intendeva stroncare il culto pagano ad Apollo, che a Dafne aveva un antico tempio, sostituendogli il culto cristiano per san Babila, e voleva così liberare quel luogo dalla corruzione che vi regnava. Infatti, quando di lì a una decina d’anni, nell’agosto del 362 l’imperatore Giuliano venne a Dafne, trovò il tempio del dio in condizioni pietose e il suo oracolo ormai silenzioso; per ridar vita al culto pagano e per «purificare» i dintorni del tempio, Giuliano impose allora di ritrasferire i resti del martire lontano da Dafne: Giovanni Crisostomo e le altre fonti cristiane assicurano che il trasporto delle reliquie al cimitero di Antiochia, donde erano state raccolte alcuni anni prima, si trasformò in una grande manifestazione di fede e in una processione trionfale in onore del Santo. Ma non fu questa l’ultima traslazione: nel 379-380 il vescovo Melezio fece costruire di fronte ad Antiochia, al di là del fiume Oronte, un martyrion in onore di san Babila: in esso le sue reliquie vennero definitivamente trasferite e accanto ad esse fu pure tumulato, nel 381, lo stesso Melezio.
Il culto di san Babila e dei tre fanciulli, diffuso precocemente in Occidente, giunse anche a Milano. La presenza di questa memoria liturgica di origine siriaca in ambito milanese - attestata già negli antichi messali ambrosiani del IX secolo e nella chiesa stessa di San Babila di cui si hanno testimonianze certe a partire dal secolo XI - deve essere collocata fra i numerosi segni, noti e ampiamente studiati, del profondo influsso orientale sulla liturgia e sulla vita della Chiesa di Milano.
La commemorazione di san Babila e dei tre fanciulli fissata al 4 settembre nel Sinassario e negli altri libri liturgici della Chiesa greca, è invece attestata al 24 gennaio, come si è visto, sia in san Giovanni Crisostomo, sia negli antichi Martirologi siriaco e geronimiano; allo stesso giorno è conservata anche nel Martirologio romano.
A Milano la data del 24 gennaio è attestata a partire dai messali del IX secolo sino ai nostri tempi. Oggi tuttavia, dopo la riforma liturgica attuata dal concilio ecumenico Vaticano II, per lasciare spazio il 24 gennaio alla commemorazione di san Francesco di Sales, la memoria di san Babila e dei tre fanciulli è stata anticipata al giorno precedente, 23 gennaio.

(Fonte: www.santababila.org)
Giaculatoria - Santi Babila, Urbano, Prilidano ed Epolono, pregate per noi.

*Sant'Essuperanzio - Vescovo di Cingoli (24 gennaio)

Essuperanzio, patrono di Cingoli, nacque, stando alla tradizione tramandataci, in Africa nel V secolo e fin dall'infanzia manifestò il desiderio di convertirsi; finché a dodici anni, dopo vive insistenze, riuscì a convincere il padre, ariano o manicheo, a dargli il permesso di ricevere il battesimo secondo il rito cattolico.
Una volta cresciuto, non volle sposarsi e lasciò la famiglia per andare a predicare il Vangelo.
Percorse così buona parte dell'Africa del Nord, conducendo vita monastica.
Imbarcatosi per l'Italia, durante la traversata convertì l'equipaggio della nave e sedò con la preghiera una violenta tempesta. Toccata terra a Numana, nei pressi di Ancona, si incamminò alla volta di Roma, dove riprese la sua predicazione e fu imprigionato.
Il Papa lo fece rimettere il libertà, lo consacrò vescovo e lo mandò a reggere la diocesi di Cingoli, la cui sede era rimasta vacante.
Fu ricevuto in trionfo e ricambiò quell'accoglienza con le sue virtù e il suo zelo pastorale.
Dopo quindici anni di episcopato, nei quali compì numerosi miracoli, sentendosi vicino a morire indicò egli stesso il luogo dove voleva essere sepolto, fuori della città. (Avv.)
Martirologio Romano: A Cingoli nelle Marche, Sant’Esuperanzio, vescovo. Tre dei quattro Santi di questo nome furono vescovi, vissuti più o meno negli stessi anni: uno, di origine greca, fu vescovo di Como negli anni a cavallo tra il V e il VI secolo, ed è festeggiato il 22 giugno; un altro, che si ricorda il 30 maggio, resse la gloriosa diocesi di Ravenna nella seconda metà del V secolo cioè nel tristissimo periodo della caduta dell’Impero d’Occidente e della conquista di Ravenna da parte di Odoacre; il terzo fu vescovo di Cingoli nel V secolo, ed è quello che si festeggia oggi.  
A loro si aggiunge il diacono Essuperanzio, che morì martire a Spoleto nel 303 (festa il 30 dicembre).
Essuperanzio patrono di Cingoli nacque, stando alla tradizione tramandataci, in Africa e fin dall’infanzia  manifestò il desiderio di convertirsi; finché a dodici anni, dopo vive insistenze, riuscì a convincere il padre, ariano o manicheo, a dargli il permesso di ricevere il battesimo secondo il rito cattolico.
Una volta cresciuto, non volle sposarsi e lasciò la famiglia per andare a predicare il Vangelo.
Percorse così buona parte dell’Africa del Nord, conducendo vita monastica. Imbarcatosi per l’Italia, durante la traversata convertì l’equipaggio della nave e sedò con la preghiera una violenta tempesta. Toccata terra a Numana, nei pressi di Ancona, si incamminò alla volta di Roma, dove riprese la sua predicazione e fu imprigionato.
Il Papa lo fece rimettere il libertà, lo consacrò vescovo e lo mandò a reggere la diocesi di Cingoli, la cui sede era rimasta vacante. Fu ricevuto in trionfo e ricambiò quell’accoglienza con le sue virtù e il suo zelo pastorale.
Dopo quindici anni di proficuo episcopato, illustrato da numerosi miracoli, sentendosi vicino a morire indicò il luogo dove voleva essere sepolto, fuori della città.
Gli furono fatti solenni funerali.
Queste notizie biografiche sono incerte e basate in gran parte su tradizioni non controllabili e supposizioni; ma il culto che risulta prestato al santo nella città marchigiana è antichissimo, e assai pregevoli le opere d’arte eseguite in suo onore.
Negli statuti comunali del 1307 Sant’Essuperanzio è invocato come "capo e guida del popolo di Cingoli" e in quelli del 1325 la chiesa a lui dedicata era posta sotto la protezione del Comune.
(Fonte: Giornale di Brescia)
Giaculatoria - Sant'Essuperanzio, pregate per noi.

*San Feliciano di Foligno - Vescovo e Martire (24 gennaio)
Sec. III  Nato intorno al 160 presso «Forum Flaminii», oggi San Giovanni Profiamma, frazione di Foligno, il patrono Feliciano fu l'evangelizzatore di vaste zone dell'attuale Umbria: da Foligno a Spello, Bevagna, Assisi, Perugia, Norcia, Plestia, Trevi, Spoleto.
Dopo un periodo a Roma era tornato in patria, dove era stato acclamato vescovo. Ricevuto dal Papa il privilegio del pallio, poté ordinare il diacono Valentino vescovo di Terni.
L'episcopato di Feliciano durò 56 anni.
Morì 94enne martire, sotto Decio (249-251). A lui è dedicata la cattedrale di Foligno. (Avvenire)
Emblema: Bastone pastorale, Palma  
Martirologio Romano: A   Foligno in Umbria, San Feliciano, che si ritiene sia stato il primo vescovo di questa regione.
San Feliciano nacque a ‘Forum Flaminii’ odierna San Giovanni Profiamma, da una famiglia cristiana, intorno al 160, si recò a Roma al tempo di Papa Eleuterio (174-189) e raccolto e istruito da un arcidiacono.
Tornato nella sua zona d’origine cioè la Tuscia, dove erano ancora tutti pagani e il sacerdozio ancora ignoto, dopo  un periodo di evangelizzazione viene eletto vescovo dai suoi concittadini e riceve l’ordinazione a Roma da Papa Vittore I.

Prende a predicare in vaste zone dell’attuale Umbria, per prima Foligno, poi Spello, Bevagna, Assisi, Perugia, Norcia, Plestia, Trevi, Spoleto, non tutte queste città corrisposero alle sue predicazioni evangeliche. Riceve dal papa il privilegio del pallio e così può consacrare vescovo di Terni il diacono Valentino; egli è il primo dei vescovi di tutta la provincia Appenninica.
Feliciano, secondo un’antica ‘Passio’ e secondo gli studi di vari autorevoli agiografi, è considerato vescovo di Foligno oltre che di ‘Forum Flaminii’ dove nacque, di cui viene considerato il primo vescovo; il suo episcopato durò 56 anni e morì alla veneranda età di 94 anni, durante la persecuzione di Decio (249-251), il testo dice che morì ‘poena laceratus’ il 24 gennaio, a tre miglia dalla sua città, cioè a Monte Rotondo - Foligno, dove fu sepolto e di cui è il venerato patrono, celebrato alla stessa data.
Il duomo di questa città si può considerare, con i suoi affreschi, il più ricco e veritiero centro iconografico del santo vescovo, egli è raffigurato nelle varie epoche con sontuosi abiti vescovili e spesso con mani e piedi trafitti.
Nel 965 alcune reliquie furono traslate a Minden in Germania, per cui è stato considerato vescovo di quella città con festa al 20 ottobre, errore che sdoppia la persona e che è passato anche nel “Martirologio Romano!”.
(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Feliciano di Foligno, pregate per noi.

*San Francesco di Sales – Vescovo di Ginevra e Dottore della Chiesa (24 gennaio)
Thorens, Savoia, 21 agosto 1567 - Lione, Francia, 28 dicembre 1622
Vescovo di Ginevra, fu uno dei grandi maestri di spiritualità degli ultimi secoli. Scrisse l’Introduzione alla vita devota (Filotea) e altre opere ascetico-mistiche, dove propone una via di santità accessibile a tutte le condizioni sociali, fondata interamente sull’amore di Dio, compendio di ogni perfezione (Teotimo).
Fondò con santa Giovanna Fremyot de Chantal l’Ordine della Visitazione. Con la sua saggezza pastorale e la sua dolcezza seppe attirare all’unità della Chiesa molti calvinisti. (Mess. Rom.)
Patronato: Giornalisti, Autori, Scrittori, Sordomuti
Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Memoria di San Francesco di Sales, vescovo di Ginevra e dottore della Chiesa: vero pastore di anime, ricondusse alla comunione cattolica moltissimi fratelli da essa separati, insegnò ai cristiani con i suoi scritti la devozione e l’amore di Dio e istituì, insieme a santa Giovanna di Chantal, l’Ordine della Visitazione; vivendo poi a Lione in umiltà, rese l’anima a Dio il 28 dicembre e fu sepolto in questo giorno ad Annecy.
(28 dicembre: A Lione in Francia, anniversario della morte di San Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, la cui memoria si celebra il 24 gennaio nel giorno della sua deposizione ad Annecy).
San Francesco di Sales, vescovo di Ginevra e dottore della Chiesa, è sicuramente il più importante e celebre fiore  di santità sbocciato in Savoia, sul versante alpino francese.
Figlio primogenito, Francois nacque il 21 agosto 1567 in Savoia nel castello di Sales presso Thorens, appartenente alla sua antica nobile famiglia.
Ricevette sin dalla più tenera età un’accurata educazione, coronata dagli studi universitari di giurisprudenza a Parigi e a Padova.
Qui ricevette con grande lode il berretto dottorale e ritornato in patria fu nominato avvocato del Senato di Chambéry.
Ma sin dalla sua frequentazione accademica erano iniziati ad emergere i suoi preminenti interessi teologici, culminati poi nelle scoperta della vocazione sacerdotale, che deluse però le aspettative paterne.
Nel 1593 ricevette l’ordinazione presbiterale ed il 21 dicembre celebrò la sua prima Messa.
Fu sacerdote zelante ed instancabile lavoratore nella vigna del Signore.
Visti gli scarsi frutti che ottenuti dal pulpito, si diede alla pubblicazione di fogli volanti, che egli stesso faceva scivolare sotto gli usci delle case o affiggeva ai muri, meritandosi per questa originale attività pubblicitaria il titolo di patrono dei giornalisti e di quanti diffondono la verità cristiana servendosi dei mezzi di comunicazione sociale.
Ma anche quei foglietti, che egli cacciava sotto le porte delle case, ebbero scarsa efficacia.
Spinto da un enorme desiderio di salvaguardare l’ortodossia cristiana, mentre imperversava la Riforma calvinista, Francois chiese volontariamente udienza al vescovo di Ginevra affinché lo destinasse a quella città, simbolo supremo del calvinismo e massima sede dei riformatori, per la difficile missione di predicatore cattolico.
Stabilitosi a Ginevra, non si fece remore a discutere di teologia con i protestanti, ardendo dal desiderio di recuperare quante più anime possibili alla Chiesa, ma soprattutto alla causa di
Cristo da lui ritenuta più genuina.  
Il suo costante pensiero era rivolto inoltre alla condizione dei laici, preoccupato di sviluppare una predicazione e un modello di vita cristiana alla portata anche delle persone comuni, immerse nella difficile vita quotidiana.
Proverbiali divennero i suoi insegnamenti, pervasi di comprensione e di dolcezza, permeati dalla ferma convinzione che a supporto delle azioni umane vi fosse sempre la provvidenziale presenza divina.
Molti dei suoi insegnamenti sono infatti intrisi di misticismo e di nobile elevazione spirituale.
I suoi enormi sforzi ed i grandi successi ottenuti in termini pastorali gli meritarono la nomina a vescovo coadiutore di Ginevra già nel 1599, a trentadue anni di età e dopo soli sei anni di sacerdozio.
Dopo altri tre anni divenne vescovo a pieno titolo e si spese per l’introduzione nella sua diocesi delle riforme promulgate dal Concilio di Trento.
La città rimase comunque nel suo complesso in mano ai riformati ed il novello vescovo dovette trasferire la sua sede nella cittadina savoiarda di Annecy, “Venezia delle Alpi”, sulle rive del lago omonimo.
Fu direttore spirituale di San Vincenzo de’ Paoli.
Nel corso della sua missione di predicatore, nel 1604 conobbe poi a Dijon la nobildonna Giovanna Francesca Frèmiot, vedova del barone de Chantal, con cui iniziò una corrispondenza epistolare ed una profonda amicizia che sfociarono nella fondazione dell’Ordine della Visitazione.
“Se sbaglio, voglio sbagliare piuttosto per troppa bontà che per troppo rigore”: in questa affermazione di Francois de Sales sta il segreto della simpatia che egli seppe suscitare tra i suoi contemporanei.
Il duca di Savoia, dal quale Francesco dipendeva politicamente, sostenne l’opera dell’inascoltato apostolo con la maniera forte, ma non addicendosi l’intolleranza al temperamento del Santo, quest’ultimo preferì portare avanti la sua battaglia per l’ortodossia con il metodo della carità, illuminando le coscienze con gli scritti, per i quali ha avuto il titolo di dottore della Chiesa. Le sue principali opere furono dunque “Introduzione alla vita devota” e “Trattato dell'amore di Dio”, testi fondamentali della letteratura religiosa di tutti i tempi.
Quello dell’amore di Dio fu l’argomento con il quale convinse i recalcitranti ugonotti a tornare in seno alla Chiesa  Cattolica.
L’11 dicembre 1622 a Lione ebbe l’ultimo colloquio con la sua penitente e qui morì per un attacco di apoplessia il 28 dello stesso mese nella stanzetta del cappellano delle Suore della Visitazione presso il monastero.
Il 24 gennaio 1623 il corpo mortale del santo fu traslato ad Annecy, nella chiesa oggi a lui dedicata, ma in seguito fu posto alla venerazione dei fedeli nella basilica della Visitation, sulla collina adiacente alla città, accanto a Santa Giovanna Francesca di Chantal.
Francesco di Sales fu presto beatificato il 8 gennaio 1662 e già tre anni dopo venne canonizzato il 19 aprile 1665 dal pontefice Alessandro VII.
Successivamente fu proclamato Dottore della Chiesa nel 1877, nonché patrono dei giornalisti nel 1923.
Il Martyrologium Romanum riporta la sua commemorazione nell’anniversario della morte, cioè al 28 dicembre, ma per l’inopportuna coincidenza con il tempo di Natale, il calendario liturgico della Chiesa universale ha fissato la sua memoria obbligatoria al 24 gennaio, anniversario della traslazione delle reliquie.
San Francesco di Sales, considerato quale padre della spiritualità moderna, ha avuto il merito di influenzare le maggiori figure non solo del “grand siècle” francese, ma anche di tutto il Seicento europeo, riuscendo a convertire al cattolicesimo addirittura alcuni esponenti del calvinismo.
Francesco di Sales a ragione può essere considerato uno dei principali rappresentanti dell’umanesimo devoto di tipica marca francese.
Fu un vescovo santo, innamorato della bellezza e della bontà di Dio.
É infine doveroso ricordare come al suo nome si siano ispirate parecchie congregazioni, tra le quali la più celebre è indubbiamente la Famiglia Salesiana fondata da San Giovanni Bosco, la cui attenzione si rivolge più che altro alla crescita ed all’educazione delle giovani generazioni, con un’attenzione tutta particolare alla cura dei figli delle classi meno abbienti.
Dalla “Introduzione alla vita devota”
Nella creazione Dio comandò alle piante di produrre i loro frutti, ognuna “secondo la propria specie” (Gn 1, 11).
Lo  stesso comando rivolge ai cristiani, che sono le piante vive della sua Chiesa, perché producano frutti di devozione, ognuno secondo il suo stato e la sua condizione.
La devozione deve essere praticata in modo diverso dal gentiluomo, dall’artigiano, dal domestico, dal principe, dalla vedova, dalla donna non sposata e da quella coniugata.
Ciò non basta, bisogna anche accordare la pratica della devozione alle forze, agli impegni e ai doveri di ogni persona.
Dimmi, Filotea, sarebbe conveniente se il vescovo volesse vivere in una solitudine simile a quella dei certosini?
E se le donne sposate non volessero possedere nulla come i cappuccini? Se l’artigiano passasse tutto il giorno in chiesa come il religioso, e il religioso si esponesse a qualsiasi incontro per servire il prossimo come è dovere del vescovo? Questa devozione non sarebbe ridicola, disordinata e inammissibile?
Questo errore si verifica tuttavia molto spesso.
No, Filotea, la devozione non distrugge nulla quando è sincera, ma anzi perfeziona tutto e, quando contrasta con gli impegni di qualcuno, è senza dubbio falsa.
L’ape trae il miele dai fiori senza sciuparli, lasciandoli intatti e freschi come li ha trovati.
La vera devozione fa ancora meglio, perché non solo non reca pregiudizio ad alcun tipo di vocazione o di occupazione, ma al contrario vi aggiunge bellezza e prestigio.
Tutte le pietre preziose, gettate nel miele, diventano più splendenti, ognuna secondo il proprio colore, così ogni persona si perfeziona nella sua vocazione, se l’unisce alla devozione.
La cura della famiglia è resa più leggera, l’amore fra marito e moglie più sincero, il servizio del principe più fedele, e tutte le altre occupazioni più soavi e amabili.
É un errore, anzi un’eresia, voler escludere l’esercizio della devozione dall’ambiente militare, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalle case dei coniugati.
É vero, Filotea, che la devozione  puramente contemplativa, monastica e religiosa può essere vissuta solo in questi stati, ma oltre a questi tre tipi di devozione, ve ne sono molti altri capaci di rendere perfetti coloro che vivono in condizioni secolari.
Perciò dovunque ci troviamo, possiamo e dobbiamo aspirare alla vita perfetta.
Orazione dal Messale
O Dio, tu hai voluto che il Santo vescovo Francesco di Sales

si facesse tutto a tutti nella carità apostolica:
concedi anche a noi di testimoniare sempre,
nel servizio dei fratelli, la dolcezza del tuo amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Amen.
(Autore: Fabio Arduino - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Francesco di Sales, pregate per noi.

*Beato Luigi Prendushi - Sacerdote e Martire (24 gennaio)

Scheda del Gruppo a cui appartiene:
"Beati Martiri Albanesi" (Vincenzo Prennushi e 37 compagni) - 5 novembre

Scutari, Albania, 24 gennaio 1896 – Shelqet, Albania, 24 gennaio 1947
Luigj Prendushi, partito giovanissimo per l’Italia, venne ordinato sacerdote e fece ritorno in patria nel 1921. Esercitò il ministero in parecchie città e villaggi del nord del Paese. Arrestato il 5 dicembre 1946, fu accusato di essere una spia al servizio del Vaticano.
Venne condannato a morte e fucilato il 27 gennaio 1947. Compreso nell’elenco dei 38 martiri albanesi capeggiati da monsignor Vinçenc Prennushi, è stato beatificato a Scutari il 5 novembre 2016.
Luigj Prendushi nacque a Scutari in Albania il 24 gennaio 1896. Già a dodici anni partì per l’Italia,
dove frequentò le scuole e, allo stesso tempo, maturò la vocazione al sacerdozio.
Ordinato sacerdote, nel 1921 fece ritorno in patria, ma la nave dove viaggiava affondò. I passeggeri, tra i quali molti commercianti, si misero in salvo, mentre le merci andarono perdute. Mentre tutti piangevano per questo motivo, solo don Luigj rimase calmo. Quando gli fu chiesto come facesse, rispose: «Non ho alcun motivo per piangere. Il mio capitale è il Vangelo. Non può affondare nel mare!».
Rientrato quindi in Albania, cercò di risollevare, alla luce delle conoscenze europee, la vita degli abitanti più poveri. Condivise perfino le loro abitazioni, che erano poco più che delle grotte nei villaggi di Mazrek, Nënshat, Shllak, Dardhë, Koman, Kaçë, Naraç, Shelqet.
All’insorgere del regime comunista, avrebbe potuto fuggire e tornare in Europa, ma scelse di restare. Fu quindi arrestato il 5 dicembre 1946, con l’accusa, comune a molti altri sacerdoti della sua epoca, di essere una spia del Vaticano. Venne fucilato a Shelqet il 24 gennnaio 1947.
Compreso nell’elenco dei 38 martiri albanesi capeggiati da monsignor Vinçenc Prennushi, don Luigj Prendushi è stato beatificato a Scutari il 5 novembre 2016. Dello stesso gruppo fanno parte altri venti sacerdoti diocesani.

(Autore: Emilia Flocchini – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Luigi Prendushi, pregate per noi.

+Beata Paola Gambara Costa - Terziaria francescana (24 gennaio)

Data in sposa  appena dodicenne al signore di Bene Vagienna, nel Cuneese, madre un anno dopo, la Beata Paola Gambara Costa continuò a vivere le virtù  cristiane in un ambiente dissoluto.
Il marito per questo la angheriò e tra le crudeltà che le fece subire ci fu anche la convivenza con la sua amante.
Paola era nata nel 1463 in una nobile famiglia di Verola Alghise (oggi Verolanuova), nel Bresciano, dove era ammirata per la devozione e la bellezza.
Dopo le principesche nozze (gli sposi furono ricevuti a Torino  dal Duca di Savoia), iniziò il calvario, durante il quale ebbe un atteggiamento caritatevole verso chi la maltrattava (a Verolanuova c'è il detto «è stata provata come la beata Paola»).
Fu sotto la direzione spirituale del Beato Angelo di Chivasso e divenne terziaria francescana, spendendosi per i poveri.
Morì nel 1515 e il suo culto è stato confermato nel 1845.  
Nelle immagini: la tela che ricorda il «miracolo delle rose»; si narra che, mentre dava pane ai poveri, il marito la scoprì, ma il cibo si trasformò in fiori. (Avvenire)  
Etimologia: Paola = piccola di statura, dal latino
Martirologio Romano: A Binaco vicino a Milano, Beata Paola Gambara Costa, vedova, che, ascritta al Terz’Ordine di San Francesco, sopportò con tale pazienza il marito violento da indurlo a conversione ed esercitò sempre in modo egregio la carità verso i poveri.
Paola Gambara nacque a Verola Alghisi, oggi Verolanuova, nel Bresciano, il 3 marzo 1473: fu la primogenita di Pietro  Gambara, uomo di grande nobiltà, molto ricco e cristianamente virtuoso, e di Taddea Caterina Martinengo, anch’essa nobile pia.
Dopo di lei nacquero altri sei figli: Marietta, che divenne monaca, Ippolita che fu madre di quattordici figli, Laura, vedova, che si dedicò alla redenzione delle giovani di malaffare, Federico, Lodovico e Maddalena.
Fin da piccola, Paola si mostrò dedita alla preghiera e alla carità: il suo primo confessore fu Padre Andrea da Quinzano del convento di Sant’Apollonio a Brescia.
Nel 1484 il conte Bongiovanni Costa, signore di Bene, scudiero del Beato Amedeo IX, cavaliere di S. Michele dal 1453 e ambasciatore del Duca di Savoia presso la Serenissima Repubblica di Venezia, ospite di casa Gambara, fu colpito dalla purezza e dalle virtù della giovane e la chiese in moglie per il nipote Ludovico Antonio: il desiderio di Paola però era di entrare in convento.
I suoi genitori presero tempo e il Conte Costa inviò a parlare con la ragazza il Beato Angelo Carletti da Chivasso: egli la persuase che come moglie e madre sarebbe comunque stata fedele e devota a Dio, grazie alla Fede.
Le citò il Duca di Savoia Amedeo IX come esempio di moderazione cristiana in mezzo ai fasti e Paola acconsentì alle nozze.
Nell’autunno del 1485 si celebrarono le nozze nel castello di Pralboino. Gli sposi, nella primavera del 1486, con un ricco corteo attraversarono Milano, Alessandria, Asti e Torino dove resero omaggio alla Corte Ducale dei Savoia.
Giunsero infine nella città di Bene, città di origine romana col nome di Augusta Bagiennorum, sottoposta alla Signoria del Vescovo d’Asti dal 901 al 1387, occupata dal Duca Amedeo di Savoia, principe del ramo Acaja, divenuta nel 1413 feudo dei Costa di Chieri.
Paola iniziò la sua vita come Signora di Bene: il marito era di poche parole con lei, ma si mostrava rispettoso, Paola era intenzionata ad essere una buona moglie e a voler bene a quell’uomo che amava la caccia e i banchetti con gli amici.
A lei invece i banchetti pesavano e soprattutto i balli, ma era già così ai tempi in cui nel palazzo di Pralboino doveva presenziare a tali ritrovi con i genitori. La contessa scrisse a Padre Angelo  Carletti una lettera in cui gli sottoponeva i propositi per le sue giornate:
"Sul far dell’aurora, mi alzerò da letto, mi porterò alla Cappella di casa ove farò le mie orazioni: indi pregherò il Signore e la Beata Vergine per me peccatrice, il mio caro marito e quanti sono
della sua e mia casa. Poi dirò a ginocchia piegate il Rosario per le anime dei defunti di tutte e due le famiglie, per amici e conoscenti.
Se fossi malata, lo reciterò a letto. Finito il rosario, attenderò alla casa e alle cose del mio Signor Consorte; andrò poi ad ascoltare la Santa Messa dai Frati alla Rocchetta.
Ritornata a casa, seguirò gli affari della medesima.
Dopo pranzo reciterò l’Officio della Madonna e leggerò il libro mandatomi da lei, Padre Angelo. Seguiranno le mie  faccende domestiche e il fare, come potrò, l’elemosina ai poveri. A sera, prima di cena, farò un’altra lezione spirituale e dopo cena, prima di coricarmi, ripeterò il Rosario.
Ubbidirò a mio marito, lo compatirò nei suoi difetti e avrò cura che questi non vengano risaputi da nessuno; mi confesserò di quindici in quindici giorni, farò quanto posso per salvare l’anima mia".
Il suo confessore divenne Padre Crescenzio Morra da Bene. Erano tempi durissimi per le popolazioni del Piemonte: si susseguivano calamità naturali, carestie, malattie e la miseria era ovunque. Così era a Bene, Trinità e Carrù, nelle terre dei Costa in quegli anni dolorosi quando i poveri vivevano in misere abitazioni e giunsero a farsi il pane con i gusci di noce.
La gente si avvicinava alle mura del castello che racchiudeva i granai nelle cantine e le ricchezze dei signori. I servi gettavano dai bastioni gli avanzi dei sostanziosi pasti e tutti correvano per mettere qualcosa sotto i denti.
La morte era una compagna quasi quotidiana di grandi e piccoli; soprattutto i bambini, i più deboli cadevano sotto la sua spietata falce.
Il Conte Costa non gradiva la vicinanza del popolo sofferente, invece Paola soffriva con i poveri e li aiutava, poiché era abituata alla generosità senza riserve praticata nella casa natia dei Gambara a Brescia.
Paola Gambara fu chiamata in quegli anni a fare da madrina all’Infante ducale Violante di Savoia, figlia del Duca Carlo I e di Bianca di Monferrato.
Nel 1488 giunse la gioia più grande: nacque il figlio tanto desiderato da Paola e da Ludovico Antonio. Fu chiamato Gianfrancesco, in onore del Santo di Assisi cui la contessa era devota e Giovanni in quanto nome di famiglia. In quell’occasione Paola ottenne che il Conte facesse distribuire alla popolazione grandi quantità di cibo.
Nel 1491 la Contessa chiese di aderire al terz’ordine francescano: con l’aiuto del Padre Angelo Carletti ebbe  l’approvazione del marito. Sotto gli abiti signorili, ma molto semplici, indossava la tonaca col cordone. Nel 1492 compose una lite tra i cittadini di Bene ed il marito per diritti di acque.
Gli anni successivi furono però molto amari per la Contessa: l’animo inquieto del Conte trovò il modo di infliggerle gravi umiliazioni.
Lodovico si invaghì della giovane figlia del Podestà di Carrù e nel 1494 la condusse ad abitare nel Castello di Bene, non curandosi dei sentimenti della moglie: Paola fu rinchiusa, privata della sua libertà.
Si cercò di impedirle di fare la carità alla povera gente di Bene: ma nonostante le angherie, i magazzini si aprivano davanti alla serva di Dio e le provviste si moltiplicavano nonostante le donazioni.
Nel 1495 il figlio Gianfrancesco dovette lasciarla per recarsi a Chieri a studiare le lettere tra i suoi ascendenti paterni: per Paola il distacco da lui fu durissimo; da lì a poco venne a mancare anche Padre Angelo Carletti presso il convento di Sant’Antonio a Cuneo.
La Contessa si recò ai funerali e lì cadde malata rimanendo lontana da casa per diversi giorni.
Negli anni successivi iniziò ad avere attacchi di emicrania molto forti; visse un momento di serenità quando nel 1500,  accompagnata dal marito, potè tornare alla casa natia per rivedere la sua famiglia d’origine.
Al suo ritorno a Bene tornò ad aiutare di nascosto la popolazione tormentata dalla fame e dalla carestia. Nel 1504 improvvisamente l’amante del Conte fu colta da strani dolori al ventre: nessuno riusciva ad avvicinarla. Paola andò da lei, la perdonò, la rincuorò e le rimase accanto fino alla morte.
Questo comportamento fece sì che nascessero dei sospetti sulla morte della ragazza, ma la Contessa sopportò anche questo oltraggio. Da quel momento iniziarono a verificarsi fatti miracolosi.
Quando tornò al castello il figlio Gianfrancesco, sedicenne, dopo aver servito alla Corte dei Duchi di Savoia come paggio, il padre si affrettò ad indire un banchetto per festeggiarlo: ad un certo punto mancò il vino, poiché la Contessa ne aveva dato ai poveri convalescenti e ai vecchi. Ludovico si adirò e accusò la moglie di sperperare i suoi averi, ma, ad un cenno di Paola, le botti risultarono nuovamente piene.
Qualche tempo dopo, mentre la Contessa scendeva le scale del Castello con il grembiule colmo di pane da dare ai poveri, fu affrontata da marito che le chiese che cosa portava con sé. Paola, dopo aver mormorato una preghiera, mostrò il pane che si era trasformato in fragranti rose, nonostante fosse pieno inverno. Il Costa, da quel momento, le diede licenza di fare la carità ai poveri.
Nel 1506 Ludovico Antonio divenne gravemente malato e la moglie lo assistette con ogni cura; ottenuta la guarigione, insieme si recarono alla Chiesa degli Angeli di Cuneo per ringraziare il Beato Angelo della sua intercessione: offrirono al  convento un calice e due ampolle d’argento oltre ad un generoso lascito in segno di riconoscenza. Il Conte Costa si convertì e divenne un marito presente e fedele.
Nel 1508 Paola Gambara operò la ristrutturazione del Convento della Rocchetta; intanto continuò con le sue opere di carità e di dedizione totale  ai poveri. Il 14 gennaio 1515 fu assalita da una febbre improvvisa e violentissima accompagnata da fortissimi dolori al capo: spirò con serenità, dopo essersi confessata ed aver ricevuto l’Eucaristia, il 24  gennaio 1515 e per la  gente di Bene fu subito santa: venne sepolta nella chiesa fuori le mura della Rocchetta che tanto aveva amato.
Nel 1536, durante le guerre tra Francesco I e Carlo V, essendo andata semidistrutta la Chiesa, il corpo di Paola venne trasferito al Castello. Successivamente fu edificata in città l’attuale Chiesa di San Francesco dove i Conti Costa provvidero a costruire una cappella dove collocarono in una preziosa urna la salma, incorrotta e flessibile, della Signora di Bene.
La devozione crebbe sempre più tra la popolazione e molte guarigioni miracolose si verificarono: il 14 agosto 1845 Papa Gregorio XVI proclamò Beata la Contessa Paola Gambara Costa. (Autore: Ins. Maria Grazia Bertola - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Figlia dei nobili Giampaolo Gambara e Caterina Bevilacqua, nacque a Brescia il 3 marzo 1463. Ammiratissima  nell’adolescenza per la sua bellezza, ma soprattutto per le virtù cristiane da lei vissute, nonostante la sua inclinazione ad una vita di solitudine e preghiera, i genitori la diedero in sposa al conte Ludovico Costa di Bene Vagienna (Cuneo); un matrimonio fastoso, un ingresso in Piemonte che più solenne non avrebbe potuto essere: li ha accolti in Torino personalmente il capo dello Stato, il giovanissimo Carlo I duca di Savoia.
Hanno combinato queste nozze i suoi nobili genitori, Giampaolo Gambara e Caterina Bevilacqua, secondo l’uso del tempo. E probabilmente forzando un po’ la sua volontà: Paola, infatti – come dicono i biografi –, conduceva una vita riservata e austera, tanto da far supporre un suo ingresso in monastero.
Invece, le nozze, la nuova casa, la vita brillante.
Qualcosa di molto diverso dal modo di vivere della sua famiglia. E va a finire che il nuovo modo di vivere le piace, e lo adotta anche lei. «Dovendo partecipare alla vita di società, ne assume per qualche tempo le usanze, non sempre lodevoli e conformi ai princìpi cristiani» (G.D. Gordini).
Dopo qualche tempo, tuttavia, c’è l’incontro che la orienta in una nuova direzione: abbandonate le “usanze” dei primi tempi da sposa, non si limita a riprendere il comportamento riservato e pio della sua adolescenza, ma fa molto di più. L’autore di questa trasformazione è un francescano piemontese, Angelo Carletti da Chivasso,  figura eminente nel suo Ordine, predicatore ricercato in tutta Italia. Lei l’ha ascoltato predicare in Piemonte (dove ha fondato i monasteri di Saluzzo, Mondovì e Pinerolo) e si è poi affidata a lui per un orientamento.
I consigli del francescano la pilotano non già verso una “fuga dal mondo” in cerca di penitenze espiatorie; al contrario: padre Angelo la aiuta a restare in quel mondo, tra la gente del suo ceto, per dimostrare che si può vivere anche lì in coerenza con la fede.
Per dare un esempio. Ecco infatti l’unico gesto pubblico di Paola, l’unico  segno del suo ravvedimento: è entrata in un sodalizio laicale, il Terz’Ordine francescano.
Per il resto, è sempre la contessa Costa, con in più un figlio, e con la forza tranquilla di resistere, di continuare così anche di fronte all’infedeltà del marito.
Anzi, un giorno riceve da lui la peggiore delle offese: Ludovico non solo ha un’amante, ma un giorno gliela fa trovare in casa, installata lì. Lei non esplode e non si rassegna.
Reagisce, ma non da nemica o da vittima: reagisce da moglie preoccupata di salvare suo marito da sé stesso col proprio comportamento.
E ci riesce: Ludovico abbandona a sua volta le “usanze non sempre lodevoli”, perché finalmente ha capito che donna e che moglie è Paola.
Gli accade poi di ammalarsi gravemente: e lei, oltre a fargli da infermiera, si rivolge ancora a padre Angelo da Chivasso: ma con la preghiera, perché il francescano è morto nel convento del suo Ordine a Cuneo.
Ludovico guarisce e subito va in pellegrinaggio alla sua tomba; sulla malattia e sulla guarigione scrive una testimonianza, che  sarà poi inserita negli atti per la beatificazione di padre Angelo.
Paola, rimasta vedova col figlio, si dedica ad attività benefiche come spesso accade.
Ma il culto popolare che la circonda subito dopo morta è ispirato soprattutto al suo modo di vivere il matrimonio, con quel marito.
Un culto spontaneo, senza processi canonici, che sarà poi ratificato da Papa Gregorio XVI nel 1845. Il corpo è custodito nel convento francescano di Bene Vagienna.
(Autore: Domenico Agasso - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Paola Gambara Costa, pregate per noi.

*Beato Timoteo Giaccardo (24 gennaio)

Narzole, Cuneo, 13 giugno 1896 - 24 gennaio 1948
Etimologia:
Timoteo = colui che onora Dio, dal greco
Martirologio Romano: A Roma, Beato Timoteo (Giuseppe) Giaccardo, sacerdote, che nella Pia Società di San Paolo formò molti discepoli per annunciare al mondo il Vangelo con un appropriato uso dei mezzi di comunicazione sociale.
Il Beato Giuseppe Timoteo Giaccardo è nato a Narzole (Cn), Diocesi di Alba, il 13 giugno 1896, in giorno di sabato,  da Stefano e da Maria Gagna ed è battezzato lo stesso giorno, ricevendo i nomi di Giuseppe, Domenico e Vincenzo.
Dal 1903 al 1907 frequenta le scuole elementari e in questo periodo riceve la Prima Comunione.
Nella primavera del 1908 il giovane sacerdote Giacomo Alberione, inviato come coadiutore a Narzole, incontra il piccolo Pinotu, ne conquista l'amicizia e si offre di aiutarlo per poter diventare prete.
Il 12 settembre 1908 Giuseppe riceve il Sacramento della Cresima e il 17 ottobre entra in Seminario ad Alba con don Alberione il quale, nominato Direttore Spirituale, assume la guida di questo giovinetto che già da segni di non ordinaria virtù.
Nel 1909, a soli tredici anni, emette il voto di castità con il consenso del suo Padre spirituale.
L'8 dicembre 1912, all'inizio del corso liceale, riceve l'abito clericale, offrendosi quale esempio di vita umana e cristiana a tutti i seminaristi.
Frattanto - sotto la direzione del Fondatore della Famiglia Paolina, don Alberione, che il 20 agosto 1914 ha già dato vita alla Società San Paolo - egli matura la sua vocazione specifica, quella di essere
apostolo della comunicazione sociale, come forma di evangelizzazione più  consona ai nuovi bisogni dei tempi.
Con il consenso del suo Vescovo, il 4 luglio 1917 passa dal Seminario alla nascente Società San Paolo e viene presentato come Maestro dei primi ragazzi e "Maestro" fu chiamato e fu effettivamente e costantemente nell'Istituto, quale guida e formatore di anime.
Il 19 ottobre 1919 è ordinato sacerdote dal Vescovo di Alba e il giorno seguente celebra la prima Messa a Narzole, tra la sua gente e svolge a doloroso compito di assistere la madre morente e di portarle il Santo Viatico.
É il primo sacerdote paolino.
Il 30 giugno 1920 emette i voti religiosi perpetui e riceve dal Fondatore il nome di Timoteo (che fu il discepolo prediletto di San Paolo).
Nel gennaio del 1926, per il suo grande amore al Papa, don Alberione lo manda a Roma per fondare la prima Casa filiale della Congregazione. Acquista la "Vigna San Paolo", vicina alla Basilica omonima e vi costruisce una prima Casa-vocazionario.
Nel 1936 ritorna in Alba come Superiore di Casa Madre e vi resta fino al 1946, abbellendo di tanti capolavori il  Tempio San Paolo e cooperando attivamente con la stampa e con il servizio pastorale alla Diocesi. Nel 1946 è di nuovo a Roma, in qualità di Vicario generale della Società San Paolo.
Collaboratore fedelissimo del Fondatore, si prodiga per le Congregazioni paoline, che egli portò sulle braccia nel loro nascere, avviandole a una profonda vita interiore e ai rispettivi specifici apostolati.
Con un costante e durissimo esercizio di vita interiore, di progresso spirituale, raggiunge in breve la perfetta carità, fino a offrire la propria vita affinché fosse riconosciuta nella Chiesa la Congregazione paolina delle Pie Discepole del Divin Maestro. Il Signore ne gradì l'offerta.
Morì di leucemia fulminante il sabato 24 gennaio 1948, nel giorno del suo onomastico e alla vigilia della festa della Conversione di San Paolo.
Il 26 gennaio seguente furono celebrate le solenni esequie nella Basilica di San Paolo in Roma, con un concorso immenso di autorità e di fedeli.
I suoi resti mortali sono tumulati a Roma nelle sottocripta del Santuario di Maria Regina Apostolorum, presso la Casa da lui fondata.
Virtù
La vita del Beato G. Timoteo Giaccardo si è consumata in un costante combattimento spirituale e nell'anelito di praticare le virtù umane, cristiane, religiose, sacerdotali e apostoliche.
Suo proposito fu costantemente quello di "soprannaturalizzare il naturale".
Egli ebbe una personalità fortissima, una pulsione tesa a realizzare in sé il motto paolino "per me vivere è Cristo", con la dedizione totale all'apostolato paolino.
Segreto originale della sua "santità" è il rapporto unico e irripetibile con don Alberione, Fondatore della Famiglia Paolina, rapporto meraviglioso che si potrebbe definire una "sinergia", o meglio una "sinfonia". La sua vita è un esempio attuale di come si possa conciliare la contemplazione e lo spirito di preghiera con la più intensa vita apostolica.
Don Alberione che lo ebbe carissimo, definì questo suo figlio e fratello "fedelissimo tra i fedeli". "É opinione comune - scrive - che è passato tra noi un Santo, un vergine, un'anima che portò alla tomba, intemerata, la stola battesimale.
Fu il maestro che tutti precedeva con l'esempio, che tutto insegnava, che tutti consigliava, che tutto costruiva con la sua preghiera illuminata e calda.
Tutti comprendeva e a tutti la sua anima si comunicava, fatto sempre tutto a tutti; il primo, reputandosi l'ultimo; sensibilissimo, dolcissimo, delicatissimo".
La sua memoria è fissata dal Martyrologium Romanum al 24 gennaio mentre nel calendario della Società San Paolo è ricordato il 22 ottobre, data della sua beatificazione.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Timoteo Giaccardo, pregate per noi.

*Beato Vincenzo (Wincenty) Lewoniuk e 12 compagni - Martiri di Pratulin (24 gennaio)
m. Pratulin (Polonia), 24 gennaio 1874
Nel villaggio di Pratulin, nella diocesi di Siedlce, in Polonia, i Beati Wincenty Lewoniuk e dodici compagni martiri, che, non turbati né da minacce né da promesse, non vollero allontanarsi dalla Chiesa Cattolica, ed infine, rifiutando di consegnare le chiavi della loro parrocchia, furono massacrati inermi il 24 gennaio 1874. Giovanni Paolo II li beatificò il 6 ottobre 1996 a Roma.  
Martirologio Romano: Nel villaggio di Pratulin nei pressi di Siedlce in Polonia, Beati Vincenzo Lewoniuk e dodici compagni, martiri: irremovibili di fronte a minacce e lusinghe, non vollero separarsi dalla Chiesa cattolica e inermi furono uccisi o feriti a morte per essersi rifiutati di consegnare le chiavi della loro parrocchia.
I tredici Beati martiri polacchi commemorati in data odierna dal Martyrologium Romanum erano fedeli laici  cattolici della Chiesa cosiddetta uniate, nata nel 1596 dall’Unione di Brest.
Questa unione porto all’unita della Chiesa ortodossa in Polonia con la Chiesa Cattolica ed il Romano Pontefice.
Wincenty Lewoniuk ed i suoi compagni erano semplici contadini come tanti altri, divenuti inaspettatamente famosi a motivo della fede coraggiosa dimostrata durante la persecuzione della Chiesa Cattolica da parte della Russia, particolarmente sanguinosa e ben organizzata, al tempo della spartizione della Polonia.
Gli zar russi iniziarono gradualmente l’abolizione del cattolicesimo proprio dalla distruzione della Chiesa uniate.
Nel 1794 Caterina II abolì la Chiesa uniate ucraina.
Nel 1839 poi fu ufficialmente abolita dallo zar Nicola I la Chiesa uniate nella Bielorussia e nella Lituania.
Questo fu l’attuazione del vecchio principio “cuius regio eius religio”, in base al quale i sudditi dovevano professare la medesima religione del loro sovrano.
La Russia temette che la Chiesa Cattolica si rivelasse di ostacolo alla russificazione ed alla degradazione dell’uomo così significativi per il suo governo.
Già nella seconda meta del XIX secolo, sul territorio occupato dalla Russia, la Chiesa uniate rimaneva solo più nella diocesi polacca di Chelm.
L’amministrazione dello zar progettò l’abolizione di questa Chiesa ed Alessandro II diede l’autorizzazione a procedere. Nel gennaio 1874 avrebbe quindi dovuto entrare in vigore la liturgia ortodossa nelle chiese uniate.
L’accettazione di essa da parte degli uniati era stata giudicata dal governo russo come l’ingresso della parrocchia a far parte dell’ortodossia.
Il governo aveva infatti rimosso il vescovo ed i sacerdoti che non avevano accettato le riforme finalizzate alla rottura dell’unità della Chiesa universale.
Per la loro fedeltà essi pagarono con la deportazione in Siberia, l’incarcerazione o la rimozione dalla parrocchia.
Molti laici, privati dei loro parroci, scelsero di difendere da soli la loro chiesa, la liturgia e la fedeltà al Santo Padre, spesso anche a costo della propria vita.
Il 24 gennaio 1874 arrivarono a Pratulin le truppe zariste e gli uniati erano ben consci che la difesa della chiesa avrebbe potuto costare loro la vita.
Nonostante ciò andarono in chiesa pronti a tutto per difendere la loro fede. Congedatisi dalle loro famiglie, si vestirono in modo festivo come di consuetudine per occuparsi delle cose sacre.
Non riuscendo a persuadere gli uniati a lasciare la chiesa né con le minacce, né con le lusinghe delle grazie dello zar, il comandante ordinò di sparare sulla gente.
Avendo udito che l’esercito aveva ricevuto l’ordine di uccidere coloro che avessero opposto resistenza, gli uniati si inginocchiarono  nel cimitero presso la chiesa e con il canto  si prepararono a spargere il loro sangue per la fede.
Morirono ricolmi di pace con preghiere sulle labbra, senza rivoltarsi contro i persecutori  in quanto, come dicevano, “dolce è la morte per la fede”.
I tredici martiri di Pratulin erano tutti uomini di età compresa tra 19 e 50 anni, dei quali però non sono state tramandate molte notizie sulla loro vita personale.
Alla luce delle testimonianze paiono però uomini caratterizzati da una fede matura. La difesa della chiesa circondata dalle truppe armate non fu dunque un effetto dello zelo momentaneo o della temerarietà irresponsabile, ma la logica conseguenza della loro profonda fede.
Essi credettero che il dare la vita per Cristo non significhi perderla, bensì conquistarne la pienezza. I martiri di Pratulin per molti aspetti ricordano i primi martiri del cristianesimo, quando molti semplici fedeli vennero uccisi per il solo fatto di confessare  coraggiosamente la loro fede in Gesù Cristo.
I tredici martiri furono sepolti dai soldati russi senza rispetto, senza la partecipazione neppure dei più stretti familiari e senza lasciare alcun segno sulla loro tomba.
I parrocchiani di Pratulin fortunatamente non dimenticarono i loro fratelli martiri ed a partire dal 1918, quando la Polonia riconquistò la libertà, la tomba cominciò ad essere oggetto di venerazione. Le spoglie dei martiri vennero poi infine traslate nella chiesa parrocchiale il 18 maggio 1990.
Il caso verificatosi a Pratulin non fu in realtà un atto sporadico. Particolarmente dal gennaio 1874 ogni parrocchia uniate in Polonia scrisse la sua storia di martirio.
Lo zar abolì ufficialmente la diocesi uniate di Chelm nel 1875 e gli uniati, contro la loro volontà, vennero unificati alla Chiesa Ortodossa Russa.
Gli uniati però non accettarono ciò e per la loro fedeltà alla Chiesa cattolica pagarono molte volte con la morte o con varie pene.
Rimasti senza pastori sotto il potere russo, talvolta gli uniati ricevettero l’aiuto pastorale dei sacerdoti cattolici delle zone polacche rimaste sotto il potere austriaco e tedesco.
La grande fede degli uniati e l’aiuto solidale ricevuto dalla Chiesa Cattolica permisero di superare le
persecuzioni e di giungere finalmente alla liberta religiosa, ufficializzata il 30 aprile 1905 dal Santo zar Nicola II.
Proprio in tale occasione molti uniati in Podlachia e nella diocesi di Lublino si aggregarono alle parrocchie romano-cattoliche, essendo ormai smantellate le strutture della Chiesa uniate.
Essendo i martiri di Pratulin quelli relativamente ai quali si sono conservate un maggior numero di testimonianze,  nonché la tomba, il vescovo della diocesi di Podlachia Enrico Przeździecki scelse proprio essi nel 1938 come candidati alla beatificazione in rappresentanza di tutti quei martiri che diedero la vita per la fede e per  l’unità della Chiesa.
Al loro martirio resero omaggio quasi tutti i papi a partire dal Beato Pio IX, ma fu con il loro connazionale Giovanni Paolo II che si giunse alla beatificazione il 6 ottobre 1996 in San Pietro.
Egli giudicò i martiri di Podlachia quale grande capitolo della storia della Polonia e rivelò perciò di portare la loro memoria nel suo cuore.
Questi beati potrebbero essere anche considerati oggi quali patroni dell’apostolato dei laici, esempi pratici di impegno nella vita della Chiesa e di responsabilità per la costruzione di una società fondata sulla legge di Dio.
Si riportano di seguito alcune brevi informazioni su ciascuno dei tredici  martiri di Pratulin, dei quali è disponibile anche una buona iconografia sia dei singoli che dell’intero gruppo.
Vincenzo (Wincenty) Lewoniuk, nato a Krzyczew (Polonia) nel 1849, sposato, di anni 25. Uomo pio e di buona reputazione.
Fu il primo a dare la vita per la difesa della chiesa e ciò gli meritò di essere posto a capo del presente gruppo.
Daniele (Daniel) Karmasz, nato a Przedmiecie Pratulin (Polonia) il 22 dicembre 1826, sposato, di 48 anni.
Dalla testimonianza di suo figlio sappiamo che era un uomo di sentimenti religiosi e timorato di Dio.
Presidente della confraternita parrocchiale, durante la difesa della chiesa si mise a capo fila della gente portando una croce  che ancora oggi viene conservata a Pratulin.
Luca (Lukasz) Bojko, nato a Zaczopki (Polonia) il 29 ottobre 1852, celibe, di 22 anni.
Suo fratello testimoniò che fu un uomo onesto, religioso e di buona reputazione. Durante la difesa della chiesa suonava le campane.
Costantino (Konstanty) Bojko, nato a Derlo (Polonia) il 25 agosto 1825, sposato, di 45 anni.
Uomo buono e pio. Ferito gravemente durante la difesa della chiesa, morì a casa il giorno successivo,  lasciando la moglie Irene e sette figli.
Costantino (Konstanty) Lukaszuk, nato a Zaczopki (Polonia) nel 1829, sposato, di 45 anni. Fu ferito nella difesa della chiesa e ciò comportò per lui la morte.
Aniceto (Anicet) Hryciuk, nato a Zaczopki (Polonia) nel   1855, celibe, di 19 anni. Giovane buono, religioso ed educato all’amore verso la chiesa. Uscendo da casa con il cibo per i difensori della chiesa a Pratulin, disse a sua madre: “Forse anch’io sarò degno di dare la vita per la fede”. Fu infatti ucciso presso la chiesa il 24 gennaio nelle ore pomeridiane.
Filippo (Filip) Geryluk, nato a Zaczopki (Polonia) il 26 novembre 1830, sposato, di 44 anni. Dalla testimonianza di suo nipote risultò essere un buon padre di famiglia, pio ed onesto. Presso la chiesa incoraggiò gli altri alla perseveranza e lui stesso  diede la vita per la fede.
Onofrio (Onufry) Wasyluk, nato a Zaczopki (Polonia) nel 1853, di 21 anni. Buon cattolico ed uomo giusto, stimato da tutti.
Bartolomeo (Bartlomiej) Osypiuk, nato a Bohukaly (Polonia) il 3 settembre 1843, di 30 anni. Sposato con Natalia, aveva due figli. Rispettato da tutti nel villaggio per la sua onestà, avvedutezza e religiosità. Gravemente ferito, fu trasportato a casa, ove morì pregando per i persecutori.
Ignazio (Ignacy) Franczuk, nato a Derlo (Polonia) nel 1824, di 50 anni. Sposato con Elena da cui ebbe sette  figli. Da suo figlio sappiamo che educò i figli nel timore di Dio. La fedeltà a Dio fu per lui il valore più importante. Preparandosi ad andare a Pratulin per difendere la chiesa, indossò un abito pulito affermando che tutto avrebbe potuto succedere, anche che egli non fosse più tornato. Dopo la morte  di Daniel Karmasz prese la sua croce e si mise in prima fila con i difensori.
Giovanni (Jan) Andrzejuk, nato a Drelów (Polonia) il 9 aprile 1848, di 26 anni. Sposato con Marina da cui ebbe due figli. Stimato da tutti quale uomo buono e prudente. Mentre si avviò a Pratulin per difendere la chiesa, si congedò da tutti presupponendo che potesse essere l’ultima volta. Gravemente ferito fu trasportato a casa, dove  morì durante la notte.
Massimo (Maksym) Hawryluk, nato a Bohukaly (Polonia) il 2 maggio 1840, di 34 anni. Sposato con Domenica, stimato dalla gente quale uomo buono   e onesto. Gravemente ferito presso la chiesa, morì il giorno seguente.

Michele (Michal) Wawryszuk, nato a Derlo (Polonia) nel 1853, celibe, di 21 anni. Lavorava nella tenuta di Paolo Pikula a Derło. Godeva buona fama. Gravemente ferito presso la chiesa, morì il giorno dopo a Derło.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Beato Vincenzo Lewoniuk e 12 compagni, pregate per noi.