Il richiamo della foresta jack london riassunto

Il richiamo della foresta jack london riassunto
Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il richiamo della foresta di Jack London. Il romanzo è pubblicato in Italia, tra gli altri, da Einaudi, con un prezzo di copertina di 9,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)

Il richiamo della foresta: trama del libro

Il romanzo è ambientato inizialmente in California, nella soleggiata Santa Clara Valley, nel 1897. Il cane Buck, figlio di un maschio sanbernardo e di una madre pastore scozzese, ha l’aspetto di un lupo, un portamento regale, e vive nella fattoria di un magistrato, il giudice Miller. Inizia la “corsa all’oro del Klondike”: aumenta la richiesta di cani da slitta, unico mezzo di locomozione nella gelata estremità settentrionale del continente americano, e pertanto Buck viene venduto dal giardiniere del suo padrone a un losco e brutale trafficante, il quale lo maltratta, lo rinchiude in una cassa perché sia trasportato per una nave tra i ghiacci del Klondike.

Affidato a un brutale addestratore di cani, Buck conosce la «legge della zanna e del bastone»: picchiato selvaggiamente, aggiogato a una muta guidata dal cane Spitz e costretto infine a diventare cane da slitta. Buck impara a difendersi dagli altri cani; uccide anzi Spitz e diventa capo della muta. Cambia padroni, ma non diminuiscono i maltrattamenti. Dopo essere stato al servizio di tre cercatori d’oro litigiosi e incapaci, Buck sta per essere ucciso, ma viene salvato dal cercatore d’oro John Thornton. Scoppia l’amore di Buck per il suo salvatore che salva più volte da situazioni pericolose e infine gli fa vincere una grossa somma in una scommessa, tirando da solo una slitta con un carico di mille libbre. La vincita permette a Thornton di recarsi a Est, in cerca di una miniera abbandonata ai margini di una foresta. Qui Buck comincia a sentire «il richiamo della foresta»…

Il richiamo della foresta jack london riassunto
Il richiamo della foresta
Edito da EINAUDI nel 11 November 2014 • Pagine: 152 • Compra su Amazon

Sullo sfondo del Grande Nord americano, al tempo della leggendaria corsa all'oro, il cane Buck, sottratto alla fattoria del giudice Miller, è costretto a piegarsi alla legge primitiva e violenta dei cercatori che lo mettono al traino delle slitte. Sopraffatto dagli stenti e dalla fatica si risveglia in lui sempre piú forte un istinto atavico che lo spinge verso la foresta e la vita selvaggia strappandogli... → CONTINUA SU AMAZON

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Estratto dall'incipit del libro

Buck non leggeva i giornali, altrimenti avrebbe saputo quale guaio stava bollendo in pentola, non per lui soltanto, ma per tutti i cani d’una certa mole con forte muscolatura e un caldo e lungo pelo, dallo stretto di Puget fino a San Diego. Giacché annaspando nelle tenebre artiche gli uomini avevan scovato un biondo metallo, e linee marittime e compagnie di trasporti davano risonanza alla scoperta, migliaia e migliaia di persone accorrevano verso le terre del Nord. Questi uomini avevano bisogno di cani, e i cani di cui abbisognavano dovevano essere robusti, con forte muscolatura per sostenere le fatiche e un folto pelo per proteggersi dal freddo.
Viveva Buck in una grande casa nell’assolata Valle di Santa Clara; il posto era noto come residenza del giudice Miller. Discosta dalla strada, la casa era seminascosta tra gli alberi, attraverso i quali si poteva scorgere la grande e ombrosa veranda che correva attorno ai quattro lati. Vi si giungeva per viali ghiaiosi che si snodavano in una distesa di prati, e sotto i rami intrecciati d’alti pioppi. Sul retro poi tutto prendeva dimensioni ancor piú ampie che sul lato anteriore. C’erano grandi stalle accudite da una dozzina di garzoni e stallieri, file di padiglioni per la servitú coperti di rampicanti, e un’ordinata distesa di baracche, grandi pergolati, verdi pascoli, frutteti e cespugli di bacche a perdita d’occhio. C’era anche l’impianto per pompare acqua dal pozzo artesiano e la grande cisterna di cemento dove, i figli del giudice, si tuffavano al mattino e rinfrescavano nei caldi pomeriggi.
E in tanto vasta dimora regnava Buck; qui era nato e vissuto per i quattro anni della sua esistenza. C’erano altri cani, certo; in una proprietà del genere non potevano mancare altri cani. E tuttavia quelli non contavano. Andavano e venivano, alloggiavano nei brulicanti canili, oppure campavano oscuramente nei recessi della casa, alla maniera di Toots, il cagnolino giapponese, o di Ysabel, la cagnetta messicana senza pelo: strane creature che raramente mettevano naso fuor dalla porta o piede al suolo. D’altro canto c’erano anche i fox-terrier, una ventina almeno, sempre pronti a guaiolare spaventevoli minacce a Toots e Ysabel, non appena questi li osservassero dalle finestre, protetti da una legione di cameriere armate di scope e strofinacci.
Ma Buck non era un cane casalingo, e neppure cane da canile; suo era l’intero regno. Si tuffava a nuotare nella cisterna o andava a caccia con i figli del giudice; scortava Mollie e Alice, le due figlie del giudice, nei loro lunghi peregrinaggi al tramonto e di buon’ora al mattino; si sdraiava nelle sere d’inverno ai piedi del giudice, d’innanzi al crepitante caminetto della biblioteca; portava sulla schiena i nipotini del giudice o li faceva ruzzolare sull’erba, nonché sorvegliava i loro passi in fughe avventurose sino alla fontana davanti alle scuderie, o perfino oltre, verso i recinti dei cavalli e i cespugli di bacche. Impettito avanzava tra i foxterrier, ignorando affatto Toots e Ysabel, in quanto egli era il sovrano: sovrano su tutto quanto strisciasse, zampettasse o volasse nella residenza del giudice Miller, esseri umani inclusi.
Suo padre, Elmo, un enorme San Bernardo, era stato l’inseparabile compagno del giudice, e Buck prometteva di seguirne le orme. Non era ugualmente grosso, pesava solo centoquaranta libbre, in quanto sua madre, Shep, era una cagna da pastore scozzese. Centoquaranta libbre però, a cui s’aggiungeva la dignità derivante da una comoda vita e dal rispetto d’ognuno, che gli consentivano un adeguato portamento regale. Dacché era un cucciolo e per i quattro anni della sua esistenza, aveva vissuto come un aristocratico soddisfatto: con notevole orgoglio di sé e anche un pizzico d’egocentrismo, quale spesso si nota nei gentiluomini di campagna, a causa della loro vita isolata. Ma aveva evitato di far la fine d’un cane rammollito. La caccia e simili distrazioni all’aria aperta avevano tenuto lontano il grasso dal suo corpo e rafforzato i suoi muscoli; e l’amore per l’acqua era stato per lui, come per i popoli dediti alle fredde abluzioni, un tonico e una garanzia di salute.
Tale era dunque la situazione del cane Buck nell’autunno del 1897, quando la scoperta di giacimenti nel Klondike prese a richiamare uomini da ogni angolo del mondo, verso i ghiacci del Nord. Ma Buck non leggeva i giornali, e non aveva nozione che, un aiutante del giardiniere, Manuel, potesse essere una compagnia poco raccomandabile. Manuel aveva una passione fatale, gli piaceva giocare alla lotteria cinese. Nel dedicarsi a questo gioco d’azzardo per di piú aveva una debolezza fatale, la fede in un sistema. Ciò rendeva piú che certa la sua rovina. Infatti per giocare con un sistema occorre molto denaro, mentre la paga di aiuto giardiniere bastava a stento per sfamare una moglie e una prole numerosa.
Nella memorabile sera del tradimento di Manuel, il giudice era ad una riunione dell’associazione viticultori, e i suoi ragazzi s’occupavano dell’organizzazione d’un circolo atletico. Nessuno vide Manuel e Buck passare attraverso i frutteti, in quella che Buck immaginava fosse una semplice passeggiata. E, ad eccezione d’un individuo solitario, nessuno li vide poi giungere alla piccola stazione facoltativa nota col nome di College Park. Qui l’individuo si rivolse a Manuel, e vi fu tra loro un tintinnar di monete.
– S’impacchetta la merce, prima di consegnarla, – proferí l’individuo con tono brusco. Al che Manuel passò un pezzo di solida corda attorno al collo di Buck, a doppio giro sotto il collare.
– Basta torcerla e lo soffochi finché vuoi, – disse Manuel e, con un grugnito, assentí l’estraneo.
Buck aveva accettato la corda con tranquilla dignità. Senza dubbio la cosa era insolita: ma egli aveva imparato a dar fiducia agli uomini di sua conoscenza, attribuendo loro una saggezza superiore alla sua. Quando però i capi della fune furono in mano all’estraneo, Buck ringhiò minacciosamente. Aveva soltanto manifestato disappunto, nel suo orgoglio immaginando che ciò equivalesse a un ordine. Invece con sua sorpresa la corda gli si strinse attorno al collo, togliendogli il fiato. Si scagliò furente d’un tratto contro l’uomo, che gli si fece incontro afferrandolo alla gola e ribaltandolo sul dorso con abile torsione. Inesorabilmente allora si strinse la corda, mentre Buck furibondo si dibatteva, con la lingua penzolante e l’ampio torace che ansimava invano. Mai in vita sua era stato trattato in modo tanto ignobile, e mai in vita sua s’era tanto adirato. Le forze però cominciavano a venirgli meno, gli occhi s’annebbiavano; e quando infine i due uomini segnalarono al treno di fermarsi, e lo gettarono nel bagagliaio, egli era in stato di completa incoscienza.
Riprendendo i sensi vagamente s’accorse che la lingua gli doleva e ch’era sballottato in qualche genere di veicolo. Il rauco fischio della locomotiva ad un passaggio a livello gli fece comprender dove si trovava. Troppi viaggi aveva compiuto assieme al giudice Miller, perché la sensazione di viaggiare in un bagagliaio gli giungesse nuova. Aprí gli occhi e in essi si poteva leggere lo sdegno irrefrenabile d’un monarca rapito. Balzò l’uomo per ghermirlo alla gola, ma Buck fu piú lesto. Gli addentò la mano e non lasciò la presa fin quando, soffocato di nuovo, non perse i sensi.
– Eh, sí, gli prendono degli attacchi, – disse l’uomo celando la mano ferita al custode del bagagliaio, che era accorso ai rumori di lotta.
– Lo porto a San Francisco per conto del capo. C’è un dottore di cani, là, bravissimo. Dice che riesce a curarli.
Fu nel retrobottega d’una taverna, sul porto di San Francisco, che l’uomo espresse in modo eloquente il suo parere su quella spedizione notturna.
– A me vengono solo cinquanta dollari, – brontolava, – ma non lo rifarei per mille, uno sull’altro.
Aveva la mano avvolta in un fazzoletto insanguinato, e il pantalone destro strappato dal ginocchio al piede.
– Quanto s’è preso l’altro tizio? – domandò il padrone della taverna.
– Cento, – fu la risposta. – Non ha voluto venirmi incontro; neanche una palanca di meno.
– Che fa centocinquanta, – calcolò il taverniere. – E mi venga un accidente se non li vale.
Il rapitore sciolse la fasciatura piena di sangue e si guardò la mano dilaniata: – Se stavolta non mi prendo la rabbia…
– Sarà perché il tuo destino è di finire sulla forca, – disse ridendo il taverniere. – Qua, dammi una mano, prima di alzare i tacchi.
Intontito, con un dolore insopportabile alla lingua e alla gola, e quasi strangolato a morte, Buck tentò di far fronte ai suoi aguzzini. Ma venne sbattuto al suolo e soffocato ripetutamente, finché i due non riuscirono a limare e levargli il grosso collare d’ottone che aveva al collo. La corda fu quindi tolta di mezzo, ed egli venne gettato in una cassa a forma di gabbia.
Qui rimase, per il resto di quella notte tremenda, covando la sua ira e il suo orgoglio ferito. Non riusciva a comprendere cosa significasse tutto ciò. Cosa volevano da lui, quegli strani uomini? Perché lo tenevano rinchiuso in quella stretta cassa? Senza saper perché, si sentiva oppresso dalla vaga sensazione d’una incombente sciagura. Varie volte nella notte balzò in piedi, udendo aprire la porta del retrobottega, aspettandosi di vedere il giudice o almeno i suoi figli. Vedeva invece ogni volta la faccia gonfia del taverniere, spiarlo alla luce fioca d’una candela. E ogni volta Buck stava per abbaiare di gioia, poi dalla gola tremante gli usciva un mugolio selvaggio.
Il taverniere tuttavia lo lasciò in pace, e, al mattino, entrarono quattro uomini che sollevarono la cassa. Altri aguzzini, pensò Buck, dato che questi avevano un’aria cattiva ed eran sudici e stracciati; s’infuriò dunque contro di loro attraverso le sbarre. Quelli si limitarono a ridere e a tendergli un bastone, ch’egli subito addentava, fin quando non capí ch’era esattamente quel che volevano. Allora, invaso dalla malinconia, s’accucciò e non oppose resistenza, mentre la cassa veniva issata su un carro. Poi, Buck e la cassa in cui era prigioniero, cominciarono a passare di mano in mano. Se ne occuparono gli impiegati d’una compagnia di trasporti; egli venne trasferito da un carro a un altro; quindi un veicolo lo trasportò su un traghetto, assieme ad una quantità di scatole e pacchi; dal traghetto venne scaricato in un grande deposito ferroviario, e di lí finalmente affidato ad un vagone merci.
Per due giorni e due notti quel vagone viaggiò…

Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore statunitense rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Jack London.

Qual è la morale del richiamo della foresta?

Ma quanta pazienza ci vuole per vivere, quanta per scoprirsi e per sopportare cosa c'è prima della scoperta. Il richiamo della foresta è un romanzo sulla pazienza che insegna la pista, ci dice London, che insegnano le tirelle, il freddo e la fame, e se c'è qualcosa che alla giovane età manca è proprio la pazienza.

Come si conclude il richiamo della foresta?

Il romanzo si conclude con la scomparsa di Buck tra i ghiacci del Nord alla guida di un branco di lupi. Erroneamente il romanzo d'avventura Il richiamo della foresta viene anche cercato da molte persone con il titolo "La dura delle legge della foresta".

Che cane è Buck nel richiamo della foresta?

Buck infatti è descritto come un incrocio tra un San Bernardo e un Collie Scozzese, e il cane utilizzato è proprio del regista Chris Sanders. Questo è stato scansionato digitalmente per realizzare la sua controfigura animata con la tecnica del CGI.

Come finisce Buck?

Rapito per essere venduto come cane da slitta a servizio dei cercatori d'oro del Klondike, Buck finisce nella freddissima Alaska. Rinchiuso in gabbia e addestrato a suon di bastonate.